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Padova e gli anni '70: affinità e divergenze tra Autonomia Operaia e Brigate Rosse

La seconda parte dell'intervista ai fratelli Despali, protagonisti assoluti delle vicende degli anni Settanta che hanno dato vita agli "Autonomi". Il 30 gennaio esce il loro libro che racconta nei dettagli le vicende di quegli anni

A pochi giorni dall'uscita de "Gli Autonomi, storia dei collettivi politici per il potere operaio", nelle liberie dal 30 gennaio, ecco la seconda parte dell'intervista ai due fratelli Despali, protagonisti assoluti di una vicenda che ancora oggi divide. Farci raccontare la storia degli anni Settanta secondo il punto vista dei protagonisti è una occasione che non potevamo davvero lasciarci sfuggire. Ma cosa animava tanti giovani in quegli anni cosa era il sogno che si andava inseguendo: «L’unità dei comunisti - lo spiega Giacomo Despali - non era un sogno. In diversi Paesi si è dimostrato che è una cosa che poteva succedere. Non un’utopia, non un sogno ma una possibilità concreta. Oggi mi rendo conto che è difficilmente comprensibile ma allora questo si cercava. Si agiva tutti all’interno di una stessa area politica ma c’erano pratiche e differenze organizzative tra le varie realtà. Strutturarsi come collettivi, nel nostro caso, è stata una scelta politica e organizzativa».

Padova e gli anni '70. Gli "autonomi": «Ora quella storia ve la raccontiamo noi»

L'intervista

«Ci strutturiamo, non si può lasciare al caso nulla. Diventa indispensabile rafforzare i rapporti interni, sapere sempre chi si ha a fianco», spiega Giacomo. Un aspetto che permetterà ai collettivi padovani di rimanere sempre uniti, anche a fronte di divisioni che invece investono tante realtà simili in tutta Italia. «Per riuscire davvero a determinare un progetto maturo di cambiamento che mette insieme tutti coloro che agivano all’interno dell’area comunista era l’unica possibilità per cambiare un Paese come il nostro. Serviva non solo la lotta ma anche il ragionamento, l’analisi, il confronto. Una crescita collettiva che esclude il nascondersi o la clandestinità ma che ha bisogno di essere condivisa pubblicamente». Questo metodo organizzativo e questa scelta politica si rafforza ancora di più dopo l’episodio di Ponte di Brenta.

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Un episodio che segna la vita di un giovanissimo Piero Despali che in quel momento ha solo 22 anni. La mattina del 4 settembre 1975, verso le dieci e trenta, alla periferia di Ponte di Brenta una pattuglia della polizia stradale ferma una Fiat 128 per un controllo. Nell’auto vi sono due giovani, Carlo Picchiura e Piero Despali. I due si conoscono ma Despali  non sa che Picchiura ha scelto da qualche giorno di entrare nelle Brigate Rosse e di conseguenza in clandestinità. Si incontrano quasi per caso, Despali è vicino casa sua senza documenti e in ciabatte. Picchiura lo vede, lo fa salire in auto dove cominciano una conversazione. I due si conoscono da molto tempo. Così quando li fermano, è il primo dei passaggi forti della prima parte del libro, Picchiura pur non essendo ricercato, reagisce. Ne nasce una sparatoria in cui perde la vita l’appuntato Antonio Niedda, che rimane ucciso. Despali rimane sorpreso mentre le pallottole gli fischiano sopra la testa. Con l’arrivo di altre pattuglie, Picchiura e Despali vengono arrestati. La posizione di Despali viene in poco tempo chiarita. Despali viene arrestato e massacrato di botte in questura e passa un mese in isolamento, dopodiché viene scarcerato.

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«Nel 76 - racconta Giacomo - il progetto cresce e oltre al coinvolgimento degli studenti è forte anche la componente operaia. Negli anni poi aumenta sempre più il numero di giovani che scelgono di venire a studiare a Padova proprio per vivere questo tipo di esperienza». Pratiche e idee si diffondono tanto che nascono collettivi in tutta Italia. Nel 1977 c’è l’omicidio di Francesco Lorusso, ucciso da un proiettile sparato da un carabiniere di leva: «E’ chiaro che a quel punto ci si chiede se è ancora giusto che a sparare sia solo lo Stato. E i giorni successivi a Bologna, e soprattutto la manifestazione nazionale di Roma, hanno mobilitato centinaia di migliaia di persone, armate, per le vie del centro della Capitale. Giacomo cita il brigatista Mario Moretti per puntualizzare un aspetto: «Lui dice che del “movimento del ‘77” non ci ha mai capito un cazzo, io dico che si vede. Infatti loro non hanno saputo comprendere cosa stava accadendo fuori dalle fabbriche». Le BR in quell’anno rapiscono e uccidono. «Noi ci domandiamo cosa vuol dire usare la forza - interviene Piero che racconta un episodio accaduto a Padova - se penso a quanto successo al Portello nel maggio del 1977 dove abbiamo di fatto riprodotto situazioni che stavano accadendo a Milano e Roma. Quel giorno abbiamo messo in campo un sacco di iniziative, le più diverse. Abbiamo bloccato le strade, fatto espropri nei supermercati. Gli scontri a quel punto sono stati inevitabili e durissimi. Quattro compagni furono arrestati». Quell’anno comincia l’inchiesta del giudice Calogero che porterà agli arresti del 7 aprile 1979 e proseguirà con gli arresti dell’11 marzo 1980. Calogero e il suo teorema che descrive Padova come la centrale del terrorismo in Italia. Nella vicenda giudiziaria si incrociano anche le vite di due giudici, Calogero ovviamente ma anche Palombarini.

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«La lettura di Palombarini, che è quello che ci manda a giudizio - racconta Piero - si differenza da quella di Calogero, proprio nell’impostazione. Calogero sostiene una serie di puttanate, cioè che ogni realtà rivoluzionaria agisce sotto una unica regia, che Toni Negri è capo delle Brigate Rosse. Cose che non stanno né in cielo né in terra». Tra gli Autonomi e le Br c’erano visioni assolutamente opposte. Già l’idea di clandestinità cozza con lo stile di vita, «noi vivevamo, ci divertivamo, non ci nascondevamo affatto. Non era sacrificio la lotta politica, tutt’altro». Pur non usando dei riferimenti diretti fanno intendere non solo una visione del mondo ma anche dell’intendere le battaglie sociali. La sparatoria di Ponte di Brenta ci dice che i militanti politici in quegli anni si conoscevano tutti anche se appartenenti ad altri gruppi. Erano ragazzi e ragazze molto giovani che avevano spesso condiviso gli studi, quindi incontrarsi non era insolito. «Noi nel libro raccontiamo anche delle gambizzazioni ma mai abbiamo accettato il concetto e la pratica dell’omicidio politico. Ovvio che pensato oggi sembra tutto assurdo. Ma non si può davvero paragonare i due periodi. Più che contestualizzare bisogna capire quello specifico momento del Novecento che aveva un certo tipo di caratteristiche. Se lo rapportiamo ad oggi facciamo una operazione davvero sbagliata».

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Palombarini, giudice istruttore è contraltare di Calogero, sostiene che i collettivi, la loro struttura, sono sì banda armata ma che non c’era nessuna regia al di fuori del contesto territoriale in cui agivamo. Anche Palombarini fa una forzatura per far passare la sua tesi, sorvolando anche su limiti di tipo giuridico». L’arresto di un giovane, Andrea Mignone, fa precipitare le cose dal punto di vista della repressione. La sua casa viene perquisita e non viene trovato nulla. Mignone però sa che in casa sua ci sono delle armi, non dice nulla agli inquirenti ma avverte il padre che invece di farle sparire lo denuncia ai carabinieri. «Una vicenda che investe anche la moglie dell’arrestato Miriam, che è uno dei miei grandi dolori - racconta Piero visibilmente toccato - perché questa ragazza sarà dopo additata da tutti come una infame perché si pensa sia stata lei a mettere gli inquirenti sulle tracce delle armi. Mentre invece lei non ha nessuna responsabilità. Quello che subisce, ed è stata anche troppo forte a resistere a una situazione in cui non solo veniva isolata ma caricata di responsabilità che sicuramente non aveva, è tremendo, tanto da portarla a togliersi la vita. Una tragedia di cui siamo tutti responsabili e che si poteva cercare di evitare. Un peso che è difficile togliersi».

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«Sono le nuovi generazioni che devono trovare la nuova via, ognuno ha la propria storia. basta che non siano i preti però la risposta. Non può essere Bergoglio il punto di riferimento. Questo è un po’ troppo. Una figura suggestiva, una brava persona ma è il Papa, rappresenta un potere con le sue contraddizioni interne che nascono dalla preoccupazione della sua sopravvivenza di fronte a cambiamenti epocali. Pensiamo al fenomeno dell’immigrazione, in una Europa a maggioranza laica se non atea, la Chiesa è chiaro che guarda a queste persone con interesse. E’ la forma missionaria attualizzata ai giorni d’oggi. Ovvio che di fronte a tanto razzismo la carità sembra rivoluzionaria». La fine della vostra esperienza coincide con la nascita della Lega, un caso? «Bisogna non dare il pesce, ma insegnare a pescare, è uno dei tanti slogan che fece suo Umberto Bossi trasformandolo però in una parola d’ordine razzista. Anche noi dicevamo che bisognava cambiare e costruire a casa propria, prendere in mano il proprio destino. Una volta erano concetti di sinistra mentre oggi si sono trasformati in parole d’ordine razziste e in slogan di destra. Questo mentre dall’altra parte quello che era per noi ciò che andava combattuto è diventato oggi il riferimento, il punto di vista. E’ proprio cambiato il mondo e adesso è chiaro che tutto è ancora più difficile». Una curiosità che mi è venuta subito dopo aver finito il libro è sapere perché non vi siete parlati per trent’anni. Come mai Giacomo? «Non sono affari tuoi». Interviene Piero che finalmente si è rilassato e cerca un contatto fisico con chi lo sta intervistando. Ridendo questa volta davvero divertito, batte sulla spalle del suo interlocutore e dice: «Sono cazzi nostri, certo».

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