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Padova da Vivere

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A cura di PadovaOggi

"La spada non mi serve, a me basta la penna". Angelo Beolco, Ruzante

Se si pensa al teatro veneto, il primo nome che salta alla bocca è quello di Carlo Goldoni, immenso dramaturgo veneziano che incoronò d'alloro la Commedia dell'Arte. Eppure, centocinquant'anni prima di lui, già un dramaturgo padovano, forse meno appariscente, forse più dimesso, vergava canovacci come il suo emulo avrebbe fatto in seguito, anticipando e ispirando la produzione di quanti l'avrebbero seguito per secoli: Angelo Beolco, il Ruzante.

"Uno straordinario teatrante della mia terra, poco conosciuto, anche in Italia. Ma che è senz'altro il più grande autore di teatro che l'Europa abbia avuto nel Rinascimento prima ancora dell'avvento di Shakespeare". Così parlava del Ruzante, Dario Fo, ricordandolo non a una cena fra amici, ma durante il discorso della cerimonia per l'attribuzione del premio Nobel, e non a torto. Il Ruzante fu infatti fra gli sperimentatori più arditi della sua epoca, ma anche attento osservatore delle miserie umane che riusciva a riversare su carta ora con leggerezza ora con malinconia e tristezza.

Angelo Beolco nacque probabilmente nel 1496 dal professore di medicina Giovan Francesco Beolco, un personaggio assai in vista nella società padovana dell'epoca, caratteristica che non è il caso di prender sottogamba valutando la passione e il trasporto dello scrittore padovano dato che all'epoca il teatro veniva ancora considerato una disciplina a dir poco volgare.

Non molto si conosce della sua giovinezza. Quel che si conosce meglio è la lunga e proficua collaborazione con l'amico Alvise Cornaro, nobile, proprietario terriero e autore noto per il suo stile del tutto laico. Fu lui a commissionare al Ruzzante, per la corte dei cugini cardinali Marco e Franco Cornaro, la stesura delle Orazioni, l'una del 1521, l'altra del 1528, nelle quali venne rappresentata la società contadina veneta dell'epoca con un taglio ancora leggero e talvolta ridicolo.

Quel lavoro, però deve aver segnato Angelo Beolco, che a partire dal 1530 cambiò radicalmente prospettiva e stile di scrittura nel rappresentare la realtà agricola veneta: da quella data, infatti, il mondo dei poveri, degli sfruttati, dei contadini è presentato con l'amarezza di chi conosce la vita squallida e intrisa di ingiustizia delle classi subalterne, il che eleva Ruzante, forse, come primo rappresentatore realista delle realtà scomode della vita quotidiana. La cosa richiede una sensibilità non indifferente, anche perchè un simile tipo di rappresentazione non riscuote i favori del potere.

Proprio per sensibilità nei confronti degli ultimi, probabilmente, Angelo Beolco elesse il nome Ruzante a suo pseudonimo, richiamando il nome di un umile contadino personaggio d'una delle sue commedie. Estremente prolifico come scrittore, a partire dal 1517 fino alla sua morte scrisse non meno di diciotto opere teatrali fra commedie, dialoghi e orazioni, ma neppune una giunse ai posteri con la sua firma in calce: la pubblicazione dell'opera omnia di Ruzante è infatti integralmente postuma.

Angelo Beolco morì il 17 marzo 1542, in casa dell'amico Alvise Cornaro, per ammissione dello stesso amico in una lettera a Sperone Speroni, a causa dei troppi disordini e delle troppe dissipatezze che caratterizzavano la sua vita.

La sua opera godette di alterne fortune critiche nel corso della storia: fu praticamente sempre considerato autore istintivo, popolare, si potrebbe dire, e solo recentemente si è compresa la cultura che soggiace alla sua opera. I continui rimandi e citazioni delle sue opera alla cultura classica e a quella luterana d'Oltralpe lo hanno riabilitato agli occhi della critica, ma è sorprendente notare come per secoli gli studiosi non siano stati in grado di identificare rimandi e spunti che il Beolco riusciva a far passare sottobanco, oltre le maglie della censura più o meno ufficiale e direttamente nelle orecchie del popolo.

Un rivoluzionario, insomma. Un ribelle che non usava la spada ma la penna, che non reclutava braccia ma menti, che parlava al cuore della gente, non al loro fegato, e che a buon diritto siede alto fra tutti nel gotha degli intellettuali che hanno fatto la storia della cultura.

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