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Cronaca Monselice

Casa di riposo di Monselice, la voce di chi ci lavora in piena emergenza Coronavirus

«Ci siamo trovati in mezzo a qualcosa di più grande di noi senza delle direttive precise anche su come si smaltiscono i dispositivi oltre che su come si usano. Direzione e personale stanno facendo anche troppo», racconta chi dentro ci lavora

Ci siamo dapprima passati ma neppure ci siamo accorti di averla superata, da come ce la siamo lasciata alle spalle. E’ solo quando ci siamo ritrovati quasi all’entrata del Parco Buzzaccarini che ci rendiamo conto che dobbiamo fare retromarcia. Un centinaio di metri, forse duecento e ci ritroviamo di fronte al Centro Servizi per anziani di Monselice, in via Garibaldi. Se fino a circa due mesi, prima che il virus Covid 19 si palesasse in tutta la sua drammaticità, era scontato pensare che una casa di riposo si trovasse in centro piuttosto che in un posto isolato, oggi viene meno naturale.

Lazzaretto

Sì perché i tanti decessi, quattordici persone, e i tanti positivi e contagiati, non solo tra gli ospiti, una ottantina, da più l’idea di un lazzaretto che di un luogo sereno dove passare in tranquillità l’ultima parte della propria vita. I numeri variano di ora in ora quindi anche inutile attaccarcisi, perché, come dice chi lì ci lavora, «si può stare, prendere tutte le precauzioni possibili ma è successo ugualmente anche in casi di persone attentissime». Chi ci parla non vuole svelare la proprio identità. Saranno tre alla fine della nostra ricerca le persone che lavorano nella struttura con le quali riusciamo a dialogare. Convincerle non è stato facile. Pure contattarle, anche perché per avere un racconto il più possibile aderente alla realtà bisognava trovare più di una persona che fosse disponibile. «Tanti operatori e infermieri si sono ammalati e sono in quarantena». E’ completamente cambiato il vostro lavoro, chiedo a quello in realtà meno propenso a parlare: «Sembriamo degli astronauti che vanno sulla Luna. Dalle maschere che dobbiamo indossare, che sono due, agli occhiali, il casco, alla tuta dentro la quale ci si avvolge completamente. I movimenti non sono più naturali, diventa tutto più difficile. Non bisogna dimenticare che stiamo parlando di accudire persone anziane, che stanno male».

Chiuso aperto

Da fuori sembra quasi che dentro non ci sia nessuno, è tutto chiuso. All’interno sono state create delle zone rosse, bianche e verdi. Gli ospiti sono tutti dentro le loro stanze, quindi tutta la loro giornata si svolge lì. Gli viene fatto il tampone molto assiduamente come a chi opera all’interno della struttura. Qualcuno di quelli che abbiamo importunato per avere informazioni, ricevendo anche dinieghi più che perentori, ci risponde. «Quando si va a lavorare con i pazienti che hanno contratto il virus, alla fine di questo lavoro bisogna nuovamente cambiarsi completamente per poi infilarsi di nuovo le stesse cose ma pulite, sterili. Non dovete scordarvi che questa è una casa di riposo, nessuno di noi si sarebbe mai aspettato di vivere una situazione come questa, con tutte queste persone che si ammalano e addiruttura muoiono». E non bisogna scordare che tra molti di quelli che si ammalano ci sono proprio coloro che ci lavorano all'interno della casa di riposo. 

Regione, direttive e dispositivi

La testimonianza che più colpisce però la raccogliamo quasi per caso. Siamo in fila a uno dei tabaccai aperti di Monselice, quello più vicino alla casa di riposo. Una voce di donna, posizionatasi dietro di noi, alla giusta distanza, il metro imposto dalle indicazioni ministeriali, chiede cosa davvero ci interessava sapere che non fosse stato ancora scritto. Rispondiamo che ci servivano le esperienze dirette, la voce di chi poi questa situazione la sta vivendo davvero, in prima persona: «Ci siamo trovati in mezzo a qualcosa di più grande di noi. Ho assistito, i primi giorni ancora di più, anche da parte di colleghe, a crisi di nervi, a crisi di pianto. L’ansia, la paura di contagiarsi, di finire come quelli che vediamo nei telegiornali, intubati». Lei lavora alla casa di riposto, chiediamo immediatamente ma senza voltarci per non metterla a disagio: «Sì, ci lavoro. E posso dire che chi fuori da qui avrebbe dovuto darci per lo meno delle indicazioni su come affrontare questa emergenza senza precendenti, non si è fatto mica vivo». Inevitabile chiedere a chi si stesse riferendo: «Veda un po' lei - risponde seccata - io ancora mi chiedo come mai non sia stata data una direttiva comune da seguire, da parte degli organi competenti che poi rispondono alla Regione o al Ministero. Ma a noi nessuno ha neppure spiegato come utilizzare i presidi e i dispositivi di protezione. Nessuno è venuto. Si è dovuta occupare la direzione della casa di riposo, di tutto. E il personale di sua iniziativa. E noi che lavoriamo nelle corsie abbiamo dovuto prendere informazioni da conoscenti che lavorano negli ospedali e che già erano immersi nell'emergenza, per farci spiegare come utilizzare e come smaltire ciò che dobbiamo usare, correttamente, per proteggere noi e chi ci sta intorno, sia dentro che fuori la casa di riposo. Perché, anche di questo, nessuno parla mai». 

Disponibilità

Si percepisce chiaramente che è poco propensa a rilasciare una vera e propria intervista ma altresì si comprende, invece, la voglia di tirare fuori i sentimenti che questa vicenda stanno facendo maturare, così si lascia per un attimo andare: «Questa esperienza ci dimostra che ci sono davvero tantissime brave persone. Non ci sono state figure esterne che ci hanno dato una mano per guidare questa emergenza eppure ci siamo messe una a disposizione dell'altra. Anche chi prima magari non si era troppo simpatico o semplicemente si ignorava. E questo non si può spiegare a parole». 

Generosità

Chi invece si è ritrovato sul campo, dalle infermiere alle operatrici, le due figure che agiscono nei reparti insieme alle coordinatrici, non si è mai risparmiato e ancora adesso continua a farlo. E lo si comprende non solo dalle parole che ascoltiamo sempre senza voltarci e rimanendo in fila in attesa del proprio turno al tabacchi, ma anche dalle pause e dai silenzi. «Noi potremmo andare dal nostro medico e farci mettere in malattia, ma c’è un senso del dovere che prevale. Chissà se è un bene o un male», dice quasi sottovoce, sapendo benissimo qual'è la risposta. Che non solo per cortesia noi vorremmo darle, ma quando ci voltiamo dopo una esitazione per offrire un sorriso oltre che un grazie, ci accorgiamo che se ne è appena andata via. Ne scorgiamo la figura camminare a passo deciso, veloce, che si distanzia sempre più. A ben più di quel metro che si è sempre mantenuto. La giusta distanza. 

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