rotate-mobile
Cronaca

Studiati in laboratorio i terremoti che generano tsunami: la ricerca del prof Di Toro

La ricerca è stata pubblicata su "Nature Geoscience" (articolo su Nature Geoscience)

Fino a pochi anni fa, si pensava che le rotture sismiche non fossero in grado di propagarsi attraverso i più superficiali e soffici sedimenti marini ricchi in argilla. Gli scienziati ritenevano che le dislocazioni prodotte dal terremoto fossero trascurabili in questi ambienti. Inoltre, non era stata presa in considerazione la presenza in questi sedimenti di strati non consolidati dallo spessore di decine fino a centinaia di metri composti da gusci calcarei di microrganismi marini. Infatti, basandosi su esperimenti che però non riproducevano fedelmente le straordinarie condizioni di deformazione tipiche di un terremoto, si riteneva che il coefficiente di attrito di questi materiali aumentasse con la velocità di scivolamento lungo una faglia arrestando la rottura prima che questa arrivasse a rompere il fondale marino. Ma non è così, il grande terremoto di Tohoku (magnitudo 9.0) e conseguente tsunami che ha inondato la costa settentrionale dell'arcipelago Giapponese l'11 marzo del 2011 ha messo in discussione questa interpretazione.

ROTTURA FONDALE OCEANICO.

Evidenze sismologiche, geofisiche e geologiche hanno dimostrato che in questo terremoto la rottura si è propagata fino a rompere il fondale oceanico con conseguenze devastanti. La rottura del fondale oceanico è associata all'innalzamento, anche di alcuni metri per grandi terremoti, del fondale stesso e la conseguente energizzazione della colonna d'acqua marina sovrastante. Poiché in zona di fossa oceanica la colonna d'acqua è di diversi chilometri di altezza, il sollevamento del fondale in questi particolari ambienti oceanici comporta la generazione di imponenti e violentissime onde di tsunami, alte fino a 20-30 metri (un palazzo di dieci piani) quando queste si infrangono sulla costa come nel caso del terremoto di Tohoku.

LA RICERCA.

Ma perché le rotture sismiche riescono a propagarsi in questi sedimenti e produrre grandi dislocazioni? La ricerca pubblicata su "Nature Geoscience" unisce dati da perforazione di fondali oceanici effettuati nel Pacifico in prossimità della fossa che costeggia il Costa Rica in America Centrale (progetti Integrated Oceanic Discovery Programme) a esperimenti condotti in Italia su sedimenti marini composti da argille e gusci di microrganismi marini campionati durante la perforazione. L'articolo, frutto di una collaborazione internazionale iniziata nel 2013, ha come primo autore Paola Vannucchi della Royal Holloway nel Regno Unito e Università di Firenze, come co-autori Giulio Di Toro dell’Università di Padova, Elena Spagnuolo dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia di Roma, Stefano Aretusini della Manchester University, Stefan Nielsen della Durham University, Kohtaro Ujiie della Tsukuba University e Akito Tsutsumi della Kyoto University. La ricerca è stata compiuta grazie a finanziamenti stanziati dall'Unione Europea (progetto ERC NOFEAR erogato al Prof. Di Toro), italiani (IODP-Italia) e britannici (UK-IODP) finanziati alla Prof.ssa Vannucchi e Giapponesi (J-DESC) finanziati ai ricercatori Ujiie e Tsutsumi.

I FATTORI.

"Solitamente si testano dei materiali, a volte miscelati in laboratorio, e si elabora un’ipotesi della situazione geologica che ne può derivare. Nel nostro caso - dice Paola Vannucchi  - abbiamo pensato che il megathrust (il limite di placca nelle zone di subduzione) si imposta nei sedimenti ricchi in argilla che sono i più deboli lungo tutto lo spettro delle velocità di dislocamento. In realtà il quadro geologico contraddice questa ipotesi e ci ha spinto ad approfondire aspetti che altrimenti avremmo tralasciato. Le zone di subduzione generano i terremoti più violenti, magnitudo sopra 8.5, spesso associati a tsunami e ogni anno rilasciano globalmente più dell’80% dell’energia sismica. Sappiamo che i fattori che contribuiscono all’attività sismica di un megathrust  sono molti e questi riguardano soprattutto la composizione e la natura dei sedimenti e rocce coinvolti, i fluidi che circolano in questi materiali, la loro variazione di temperatura. Ma quello che non sappiamo è come questi fattori effettivamente interagiscono lungo la faglia che separa le due placche".

LA SFIDA.

"I campioni provenienti dalla Costa Rica - spiega - gettano una nuova luce su come questi parametri regolino il comportamento sismico della faglia in una zona critica, quella più vicina al fondo oceanico. Nei materiali composti da gusci organici, il coefficiente di attrito è risultato straordinariamente basso: la presenza di questi sedimenti nelle fosse oceaniche agevolerebbe la propagazione della rottura durante grandi terremoti. Abbiamo quindi testato il materiale nei laboratori trovando conferma alla nostra ipotesi. Inoltre il materiale oggetto di studio si trova in quasi metà del fondale oceanico ed è attualmente subdotto in America Centrale, la parte settentrionale dell’America Meridionale (come riportato in figura 1 dell’articolo), ma anche in Oceano Indiano e nel Pacifico sud-occidentale. Anche se alcune zone non sono state campionate i carbonati pelagici biogenici sono certamente molto comuni. Quindi a parità di litotipo e di condizioni tettoniche, le proprietà di questo materiale potrebbero essere le stesse, anche se bisogna considerare l’intera successione sedimentaria in subduzione e questo può essere fatto solo attraverso il campionamento diretto di questi sedimenti: per questa ragione la ricerca sta continuando con campioni provenienti dall’Oceano Indiano e dalla Nuova Zelanda. Questo tipo di ricerca, che richiede strumenti capaci di raggiungere le zone più profonde degli oceani - zone che conosciamo meno della superficie di Marte - rappresenta una delle sfide più importanti per le Scienze della Terra e viene portata avanti da un programma internazionale (IODP) al quale l’Italia partecipa attraverso il consorzio europeo per la ricerca scientifica sottomarina (ECORD)".

PROF DI TORO.

Gli esperimenti sono stati effettuati con Shiva (Slow to HIgh Velocity Apparatus), un apparato sperimentale con la potenza di 300 Kw (equivalente alla potenza dissipata da 100 appartamenti medi italiani) che viene immessa in provini di roccia delle dimensioni di un piccolo bicchiere del diametro di 50mm. Gli esperimenti descritti nel lavoro pubblicato su "Nature Geoscience" sono stati effettuati con dei portacampioni particolari per impedire l'estrusione del materiale granulare e misurare il coefficiente di attrito. "Questo potente apparato sperimentale serve, insieme ad altre attività di ricerca - studi di terreno per descrivere l'architettura della faglie naturali, analisi di laboratorio dei prodotti di faglia naturali e sperimentali per capire i processi fisici responsabili dei terremoti e modelli numerici di simulazione di propagazione di rottura durante i terremoti per verificare la validità delle osservazioni sperimentali - per comprendere la meccanica dei terremoti" afferma Giulio Di Toro dell’Università di Padova e responsabile del progetto di ricerca dell’Unione Europea Nofear. "La ricerca ha svelato i processi fisici che consentono a un terremoto di generare uno tsunami per sollevamento del fondale marino. Abbiamo capito l’importanza di questi sedimenti calcarei nella spiegazione di un avanzamento di una rottura sismica.  Il comportamento fisico del materiale studiato - continua Di Toro - può spiegare alcune caratteristiche di zone di subduzione meno studiate. Tuttavia con una mappatura dei sedimenti in prossimità delle zone di subduzione e una caratterizzazione del materiale che viene tagliato dai megathrust in superficie si potrebbe pensare alla costruzione di una mappa di pericolosità soprattutto per individuare zone che possono essere soggette a tsunami earthquakes. Certamente si può costruire una mappa delle caratteristiche fisiche e di risposta dei sedimenti/rocce alla nucleazione e propagazione di un terremoto. Tuttavia bisogna sempre considerare che i sedimenti oceanici sono estremamente diversi da area ad area e frutto di processi che si incrociano con il clima e l’oceanografia".

In Evidenza

Potrebbe interessarti

Studiati in laboratorio i terremoti che generano tsunami: la ricerca del prof Di Toro

PadovaOggi è in caricamento