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Cultura

Gli Hung Over lanciano il primo album e urlano il loro rifiuto verso le ingiustizie sociali

La band padovana racconta il lungo percorso da cui è nato il disco omonimo, frutto di anni di lavoro, confronto di idee e profonde riflessioni sulle contraddizioni del mondo moderno

É uscito mercoledì 20 dicembre il nuovo disco del gruppo padovano Hung Over. Un album che tratta il tema degli opposti ispirandosi alla volontà di contrastare le aberrazioni di ogni genere che dominano la società contemporanea. Un disco di denuncia sociale e di ribellione, che ben rappresenta l'approccio della formazione: irriverente ma profondamente riflessivo.

La band, formata da Scatter A. Diagram (voce, piano, tastiere e synth), Alessandro Capovilla (chitarre, backing vocals), J. Mas (basso, backing vocals), Luca Zenere (batteria) ed Enrico Santacatterina (producer e turnista dal vivo) ha raccolto recensioni entusiastiche con l'ultimo lavoro.

Per PadovaOggi abbiamo parlato con Scatter A. Diagram e Alessandro Capovilla.

Il vostro gruppo nasce a Padova nel 2010, inizialmente con Alessandro Capovilla “Capo” e Andrea “Scatter Diagram”. Quanto hanno influito, sulla direzione musicale che avete intrapreso, la storia e la scena musicale, culturale e, più in generale, sociale di Padova e dintorni? 

S.D.: Se devo essere franco, rispondo: pochissimo!. Per Capo è stata probabilmente una pura questione di dna. Lo zio Franco e il padre Sergio erano parte di una delle band più famose della città e d’Italia negli anni Sessanta [I Delfini], così si è ritrovato la vita e la casa piene di elementi che lo riportavano a quelle atmosfere. Ma la musica da cui proveniamo entrambi è tutta un’altra storia. E anche i riferimenti culturali a cui ognuno di noi si ispira distano almeno qualche migliaio di chilometri da Padova... e non sto parlando delle vacanze in Salento! [ride]. Spesso veniamo accostati al rock anni Settanta o al grunge anni Novanta, ma in realtà le mie melodie si ispirano molto di più a quello che c’è stato nel mezzo, i favolosi anni Ottanta! 

Alessandro, è impossibile non porti la domanda in modo più specifico. Al di là dalla vicinanza con I Delfini, a chi ti ispiri? Quali sono le tue radici personali nel mondo della musica? E che rapporto hai con il peso di un'eredità così significativa?

C: La musica ha sempre fatto parte della mia vita, da quando a meno di tre anni passavo ore ad ascoltare in cuffia Phil Collins e i Beatles (mia madre diceva che cosi stavo buono) a quando negli anni Ottanta iniziai a seguire il pop di Michael Jackson e il metal dei Metallica, per poi proseguire con il grunge di Nirvana e Alice in Chains e con il progressive di King Crimson ed Emerson Lake & Palmer. Il tutto integrato da mio zio, che mi faceva ascoltare Elvis, Led Zeppelin, Deep Purple e condito con il reggae salentino dei Sud Sound System. Sono sempre stato più che altro un grande ascoltatore. Sono erede, ma non sto mandando avanti la progenie: io sono io, Franco era Franco. Musicalmente parlando siamo quello che ascoltiamo: non sono un clone, sono una persona diversa, con ascolti diversi, un percorso di vita diverso e sono queste le cose che generano la mia musica, che non può essere paragonabile alla sua. Certo quello che mi ha insegnato mio zio non lo dimenticherò mai e a lui devo moltissimo.

Il gruppo ha subito diverse variazioni e aggiustamenti a livello di membri nel corso del tempo: siete arrivati a una forma definitiva o siete aperti a nuovi cambiamenti e/o collaborazioni? 

S.D.: Mettiamola così: spremiamo chiunque attraversi la nostra sala prove come un limone! L’idea iniziale di formare questa band - mi fa rabbrividire parlare di “progetto”, termine che va molto di moda ma che è rivoltante se accostato al concetto di musica - è stata di Capo ed era un’idea essenzialmente grunge! Poi sono arrivato io e l'ho completamente violentata. In seguito, chiunque sia entrato - e uscito -, ha stravolto ulteriormente la base di partenza di Capo e anche la mia. In questa successione di violenze e abusi, a Capo è andata peggio di tutti! [ride]. In realtà Luca e Jacopo hanno contribuito a equilibrare la band, sia da un punto di vista prettamente musicale, sia da quello personale. 

Il vostro primo disco è uscito a dicembre e ha ottenuto ottime recensioni, anche da parte di personaggi di estrazione musicale piuttosto differente (pensiamo a Pino Scotto, Pietro Taucher o lo stesso Sergio Magri, per citarne alcuni). A poco più di un mese dall'uscita del disco come vanno le cose? Vi ritenete soddisfatti? 

S.D.: Siamo soddisfatti anzitutto del risultato finale, a prescindere dalle critiche. Poi avere persone molto più brave e con molta più esperienza di noi che parlano così bene del nostro lavoro è una cosa che fa molto bene all’autostima! Personalmente mi aspettavo un bel “andatevene a********” da mr. Scotto e infatti all’inizio ho pensato che il commento al nostro disco l’avesse scritto Capo per farci uno scherzo... invece era tutto vero!

Vi descrivete come “un progetto ad elevata utilità sociale” e affermate che il disco vuole scagliarsi contro le ingiustizie politiche e sociali. Da cosa nasce questo desiderio così forte di esporsi in campo sociale? A volte la musica viene usata per trattare temi più leggeri, voi invece avete assunto in modo molto deciso un impegno sociale forte. Questa scelta influenza tutta la vostra produzione? 

S.D.: Questa è una domanda a cui devo assolutamente rispondere io! In realtà anche Capo e gli altri hanno le loro idee in proposito, ma i testi sono scritti da me. Loro sono stati bravissimi a circondare quelle parole con riff e suoni adatti ad esaltarne la violenza e l’acidità. C’è dietro un grande lavoro: per questo ci abbiamo messo due anni per partorire dieci canzoni. Il modo aggressivo di esporre certi temi, urlandoli, è solo un modo per richiamare l’attenzione, per farsi ascoltare. Basta guardarsi attorno o accendere TV, radio, social network: un sacco di persone in occidente sono costrette a vivere come fossero in cattività. Chi entra in Europa vive per lo più ghettizzato e, in molti casi, si ha l’impressione che non abbia nemmeno molta voglia di uscire dal ghetto per integrarsi. Noi che viviamo in Europa da millenni siamo schiavi di ingranaggi sociali fittizi, falsità e ipocrisie che non siamo in grado di scavalcare e che anzi ci sentiamo in dovere di assecondare. Credo che a ogni persona di buon senso dovrebbe venire in mente di scrivere canzoni per urlare al mondo che non è d’accordo con tutto questo. Anche se non servisse a niente, è quanto meno catartico! 

La lotta contro le ingiustizie e le aberrazioni della realtà odierna nasce anche da quanto riscontrate nell'ambiente locale, padovano e veneto in generale? 

C.: Le facce delle persone che vedo camminare ogni giorno per strada non mi sembrano felici. Sono e siamo tutti molto stressati da questa società frenetica, che non lascia il tempo per le cose veramente importanti della vita e ci sfrutta ogni giorno nel nome del dio denaro. Ma la vita non è eterna, non siamo immortali (almeno non posso dirlo con certezza): bisognerebbe avere più tempo per stare con le persone a cui vogliamo bene e fare le cose che ci piacciono e ci danno soddisfazione, altrimenti potrebbe essere troppo tardi. Ho imparato da Josè Mujica che la cosa più preziosa a questo mondo è il tempo ed è l'unica cosa che nessuno può comprare.

L'attenzione alle problematiche socio-culturali è particolarmente evidente nell'album, un esempio su tutti è dato dal brano “Friday the 13th”, in cui è esplicito il richiamo agli attentati terroristici di Parigi. Quell'episodio ha avuto una rilevanza particolare per voi? Lo avete scelto perchè altamente emblematico o avete un legame speciale con quanto accaduto in Francia? 

S.D.: Venerdì 13 novembre 2015 è stato la prova di quello che dicevo prima. Quell’evento è la sintesi di molte cose: islamici che vivono ghettizzati alle porte di Parigi vanno nel cuore della grande città per assassinare barbaramente più di cento ragazzi europei che assistono a un concerto rock in una delle sale musicali più storiche della città. Quella notte tutti i problemi del moderno Occidente hanno prepotentemente invaso un’area che fino ad allora era rimasta vergine e intatta, quella della musica, a cui noi abbiamo sempre associato il concetto di divertimento. Sapete dove eravamo noi quella sera? A vedere tutti insieme un concerto in un club a Padova: siamo stati solo un po’ più fortunati dei ragazzi del Bataclan, è stata solo una questione di caso o destino. Ma è come se fossimo stati colpiti tutti. Ed essere colpiti, in questo modo, fa male e fa incazzare: da questo dolore e da questa rabbia nasce “Friday the 13th”. Le responsabilità stanno da entrambe le parti, ma noi, volente o nolente, siamo una di esse e quella notte qualcuno dei nostri ci ha lasciato per sempre. 

Nel padovano siete volti noti, avete suonato, tra le altre, in moltissime edizioni del Bacchiglione Beat e al Centro Culturale San Gaetano, in luoghi e appuntamenti simbolici per la città. C’è un evento o un luogo in particolare dove vi piacerebbe suonare o a cui siete particolarmente affezionati? 

S.D.: Al Banale! Ma non esiste più! Io ci ho suonato diverse volte anni fa: l’atmosfera era sempre quella delle grandi occasioni e il pubblico era davvero lì per ascoltare e vedere cosa succedeva sul palco. Oggi noto che l’aspetto scenico non è quasi più preso in considerazione, il pubblico è come inebetito dagli screen degli smartphone, non pretende nulla di eccezionale dai propri artisti preferiti ed è come se questi si fossero adagiati dentro a questa nube sonnolenta. Forse per questo non esiste più un posto come il Banale... a Padova quantomeno.

Dopo l'uscita del disco la domanda è d'obbligo: avete in programma un tour o una serie date imminenti? 

C.: Purtroppo no, a causa di alcuni gravi problemi con cui dovremo vedercela per un po’. In ogni caso un segno l'abbiamo lasciato, molto di quello che volevamo dire l'abbiamo detto con questo disco. Piaccia o no!

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