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Officina Giotto a Expo, l’esperienza padovana del lavoro in carcere

La testimonianza, giovedì 3 settembre, è stata una delle più seguite e applaudite delle quindici presentate al seminario "Le quattro potenze dell’enogastronomia italiana" nell’auditorium di Palazzo Italia

Giovedì 3 settembre l’esperienza delle lavorazioni carcerarie padovane, che dagli inizi degli anni Novanta ad oggi ha avviato al lavoro oltre cinquecento detenuti, è stata una delle più seguite e probabilmente anche la più applaudita delle quindici testimonianze presentate al seminario "Le quattro potenze dell’enogastronomia italiana" nell’auditorium di Palazzo Italia all'Expo di Milano.

OFFICINA GIOTTO ALL'EXPO. "Tra i lavori che favoriscono, che si prestano di più a redimere, a recuperare, a rieducare il detenuto troviamo in prima fila quelli che hanno a che fare con il cibo: cucina e pasticceria". Il pubblico convenuto nell’auditorium del Padiglione Italia ad Expo ha ascoltato con grande attenzione. Al microfono Nicola Boscoletto, presidente di Officina Giotto, il consorzio che nel carcere di Padova occupa più di 140 detenuti: "Mani che hanno ucciso, che hanno fatto tantissimo male diventano mani in grado di sfornare ottimi panettoni e non solo. Una vera e propria trasformazione. Per questo trovo convincente l’idea di Expo, molto italiana, di presentare il limite come una potenza, una leva per lo sviluppo. La nostra esperienza con i detenuti del carcere di Padova, come di molte altre in Italia, ne è un esempio".

IL LAVORO PER I DETENUTI. La relazione di Boscoletto è iniziata con un video in cui si descrivono i fattori principali del metodo applicato dal consorzio per accompagnare al lavoro le persone detenute. E se il lavoro (quello vero, fatto di diritti e doveri, non sicuramente i lavori domestici) è condizione necessaria per far riscoprire alla persona detenuta il suo valore, altrettanto peso ha uno sguardo di simpatia e di accoglienza nei suoi confronti, che non riduca l’uomo al reato commesso ma ne intuisca le potenzialità. Boscoletto ha raccontato l’esempio di un detenuto evaso da varie carceri brasiliane e poi accolto in un’Apac, un circuito penitenziario senza guardie e senza armi gestito dalla società civile con il coinvolgimento dagli stessi detenuti sotto il totale controllo dei magistrati di sorveglianza. Interrogato perché non fosse fuggito da questo carcere praticamente “senza filtro” verso l’esterno il detenuto con le lacrime agli occhi rispose: "Nessuno fugge dall’amore" (in portoghese "Do amor ninguém foge"). Una scritta che ora campeggia nella stessa Apac ad Itauna, nel Minas Gerais, ma anche in uno spazio ricreativo della casa di reclusione di Padova.

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