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Giorno del Ricordo, la cerimonia a Palazzo Moroni e il discorso del sindaco Giordani

Ricordate nella mattinata di lunedì 10 febbraio a Palazzo Moroni le vittime delle foibe e dell'esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra

Una cerimonia toccante e sentita, per conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell'esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale: celebrato nella mattinata di lunedì 10 febbraio a Palazzo Moroni il Giorno del Ricordo.

La cerimonia

La cerimonia, iniziata alle ore 10 in punto con l’alzabandiera e gli onori ai Caduti (con accompagnamento musicale a cura della Fanfara dei Bersaglieri in congedo, sezione "Achille Formis" di Padova) e con la deposizione di una corona di alloro sotto alla targa commemorativa in via Oberdan, è poi proseguita in sala Livio Paladin con l'intervento di Andrea Todeschini Premuda, presidente provinciale dell’Associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, e del sindaco Sergio Giordani.

Il discorso

Questo il discorso del primo cittadino: «Ricordiamo qui oggi le tragiche vicende che oltre 70 anni fa travolsero le vite dei tanti italiani che vivevano in Venezia Giulia Istria e Dalmazia. Vicende tragiche che per molti anni sono state ignorate anche a causa di una serie di circostanze, nazionali ed internazionali, legate alla divisione del mondo in due blocchi, che hanno preferito far calare il silenzio sugli orrori e le violenze di cui furono vittima gli italiani istriani, dalmati e giuliani, a cui venne perfino negato il conforto della memoria. Solo dopo la caduta del muro di Berlino, il dissolvimento dello stato Jugoslavo nato dalla seconda guerra mondiale, la successiva adesione di Slovenia e Croazia all’Unione Europea e finalmente l’istituzione del Giorno del Ricordo con la legge 92 del 30 marzo 2004, il velo di silenzio e di indifferenza è caduto. Oggi ricordiamo le migliaia di persone assassinate nelle foibe del Carso triestino, tra il 1943 e il 1945, circa 5.000 secondo molti storici, a cui vanno aggiunti i morti nei campi di prigionia. Ma anche i circa 250mila italiani, che dopo la fine della guerra furono costretti ad abbandonare le loro case e le terre dove erano nati e cresciuti, per sfuggire al disegno di conquista territoriale e di egemonia rivoluzionaria del comunismo di Tito. Tra i primi, anche Norma Cossetto, studentessa della nostra Università, istriana, arrestata e torturata dai partigiani jugoslavi e poi gettata ancora viva nella foiba di Villa Surani. A Norma Cossetto, medaglia d’oro al valor civile dal 2005, la città di Padova ha recentemente intitolato una via, mentre l’Università le ha attribuito fin dall’8 maggio 1949, la laurea ad honorem. Per provare a comprendere cosa fu l’esodo, riporto le parole che, Ferruccio Conte, esule istriano, ha affidato a una intervista di qualche anno fa: "Sono nato a Dignano d'Istria, a dieci chilometri da Pola e siamo venuti via nel settembre del '48. Ricordo che mio padre, prima della partenza, mi portava chiodi arrugginiti la sera per preparare le casse dove mettere dentro le nostre cose. Il 22 settembre del 1948, in una giornata che definisco spaventosa, siamo venuti via, io bambino, mia sorella piccola in braccio a mamma, mio padre e nelle casse quel poco che riuscivamo a portare. Saliti sul treno per Trieste, in lontananza vedevamo il campanile del paese scomparire... lentamente... ecco quella è una sensazione che ti prende al cuore: partire, andare, ma dove? Andavamo verso l'incognito. A Trieste ci hanno lasciato due giorni al Magazzino 18 e poi siamo andati al campo profughi di Latina. Ci siamo rimasti 2 anni”».

«Tragedia per troppo tempo dimenticata»

Conclude il sindaco Giordani: «Il Magazzino 18 del Porto Vecchio di Trieste, ancora oggi custodisce accatastate, masserizie ed oggetti che i profughi lasciavano in custodia, non potendo portali con loro, e sperando di recuperarli in futuro. Lì ci si rende conto cosa davvero ha voluto dire essere profughi e abbandonare le proprie cose. Per uno di quei curiosi incroci della storia, in queste terre sono presenti due simboli degli orrori che hanno segnato il scorso secolo: la Risiera di San Sabba e la Foiba di Basovizza. Questi due luoghi distano appena 12 chilometri tra loro, e simbolicamente ci dicono che i grandi totalitarismi del 900, al di là delle diverse ideologie che li hanno ispirati, sono stati tragicamente simili nei metodi di persecuzione, controllo e repressione dei dissidenti. Queste terre oggi non sono più percorse da reti e filo spinato, la bellissima piazza davanti alla stazione di Nova Goriza non è più divisa in due da una surreale recinzione metallica. Merito anche dell’Europa, che è nonostante le tensioni di questi ultimi anni, un grande spazio comune di integrazione, di dialogo, di promozione dei diritti. Questo modo di vivere e concepire la democrazia, apprezzato in tutto il mondo, deve essere difeso dai pericoli che anche oggi appaiono all’orizzonte, come la negazione dei diritti fondamentali, la minaccia del terrorismo di matrice fondamentalista, ma anche la tentazione di risolvere problemi complessi con la scorciatoia dell’autoritarismo. Anche grazie ai valori di questa nostra democrazia, abbiamo saputo, sia pure in ritardo, riconoscere il dolore che le vicende di quegli anni hanno inflitto a quelle donne e a quegli uomini e ai loro discendenti ai quali oggi ci stringiamo come fratelli. A loro è dovuto il ricordo e il rispetto per una tragedia per troppo tempo dimenticata».

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