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800 ANNI

L'800esimo anno accademico del Bo, i discorsi di Mapelli, Ruzzon e Fumian

Libertà, passato, presente e futuro. Tre declinazioni date dalla rettrice, dalla presidente del consiglio degli studenti e dal docente di Storia

Giovedì 19 maggio, all'inaugurazione dell'800esimo anno accademico, il tema della libertà è stato trattato in tre versioni diverse dalla rettrice Daniela Mapelli, dalla presidente del consiglio degli studenti Emma Ruzzon e dal docente di Storia Carlo Fumian.

Daniela Mapelli

«Diceva Antonio Gramsci: «La storia insegna, ma non ha scolari». Noi desideriamo invece imparare dai nostri ottocento anni e abbiamo scelto questo come messaggio delle celebrazioni: “Compio 800 anni e ancora imparo”. Perché a poco serve la storia, in fondo, se non diventa maestra. E il nostro sguardo, oggi, è più che mai rivolto a quanto accadrà, ricordando con orgoglio quanto abbiamo saputo costruire - ha detto la rettrice - Pensando alla Presidente Metsola e ai tanti rappresentanti degli atenei oggi qui convenuti, il pensiero va subito a un luogo che sta accanto alla nostra Aula Magna, quindi nel cuore dell’Università di Padova, che racconta e fa rivivere storie di sapere condiviso, facendo toccare con mano quella che è stata, e sarà, la comunità senza barriere della scienza: la nostra Sala dei Quaranta. Un luogo che, oltre a ospitare la cattedra di Galileo Galilei, vede rappresentati i ritratti di 40 studiosi stranieri che scelsero Padova, secoli fa, per i propri studi. Qua crebbero e si formarono per poi portare il proprio sapere in altri luoghi, spesso nel proprio Paese d’origine. Quei 40 volti sembrano quasi scrutare il visitatore e ricordargli come la scienza sia linguaggio universale che ci parla di libertà e di fratellanza, e lo fa da sempre. Con lungimiranza potremmo vedere in queste pe- regrinazioni di studiosi il formarsi di un’Europa unita dalla scienza secoli prima dell’arrivo di un’Europa come istituzione politica. La cultura non ha confini: ce lo ricordano più di 2.400 studentesse e studenti provenienti da tutto il mondo che solo quest’anno hanno scelto Padova e il suo Ateneo per trascorrere gli anni cruciali della loro formazione. Sono più del 10% dei nostri immatricolati per l’anno accademico corrente, e vanno, insieme a studentesse e studenti dei vari programmi di scambio, come l’Erasmus plus, a garantire quello sguardo largo e aperto sul mondo che è fondamentale per un ateneo in continua crescita. Al Presidente Sergio Mattarella, che ringrazio di cuore per essere tornato da noi a pochi anni dalla sua ultima visita, voglio “dedicare”, mi si conceda il termine, il nostro senso della Patria - ha continuato - Il nostro Ateneo, infatti, è l’unico insignito della medaglia d’oro al valor militare per il ruolo svolto nella Resistenza. Giovani, perché tali in molti casi erano, che hanno scritto una pagina indelebile della storia del Paese e di un Ateneo che dalla sua fondazione ha la libertà come principio ispiratore. Chissà cosa avranno pensato, ormai quasi ottant’anni fa, quegli studenti che hanno dato la loro vita per ridare a tutte e tutti quella libertas che, fino a qualche anno prima, era per loro un punto d’orgoglio dell’ateneo nel quale studiavano, non un valore da difendere a costo della propria vita. Il loro eroico sacrificio ha trasformato l’Università di Padova in quel «tempio di fede civile e presidio di eroica resistenza» nell’offrire, Presidente, «il maggiore e più lungo tributo di sangue». Parole che continuano, e continueranno, a procurarci – ogni volta che saranno lette – un senso di infinito rispetto, profonda gratitudine e commozione per chi ce le ha fatte meritare, a costo della propria vita. Per chi ci ha insegnato che la libertà non è un dato scontato, una conquista irreversibile, ma va continuamente difesa e alimentata. Per chi ci ha permesso di essere qui oggi a raccontare una storia di libertà, non di oppressione. Un altro termine che racconta la nostra Università è diritto. O meglio, diritti. Quel diritto che richiama l’Universitas Iuristarum delle origini e che poi è diventato nel tempo, l’attenzione ai diritti umani, figlia del nostro carattere pluralistico, indipendente da ogni condizionamento e discriminazione di carattere ideologico, religioso, politico o economico. Il tema dei diritti è oggi più che mai cruciale: abbiamo tutte e tutti il dovere di contribuire, al meglio delle nostre possibilità, a costruire un mondo più equo e solidale, una società più democratica e inclusiva. L’attenzione ai diritti, dicevo, è figlia del nostro carattere pluralistico: ed è questa un’altra essenziale caratteristica del nostro Ateneo, la multidisciplinarità. O meglio: la diversità. Diversità di voci e visioni, di idee e approcci, di sensibilità. Grazie al confronto, anche – e per fortuna – talvolta acceso, il nostro Ateneo migliora. La contaminazione di idee è un patrimonio inestimabile, punti di vista diversi permettono infatti di cogliere meglio sfaccettature e profondità di ogni questione. E la nostra diversità, credetemi, alimenta curiosità e voglia di formar- si di studentesse e studenti. I numeri, in questo caso, parlano: 199 corsi, dei quali 51 in lingua inglese, per un totale di 5.462 insegnamenti erogati ogni anno. Una diversità - ha aggiunto - che si declina nella composizione del nostro Ateneo: 2.462 docenti, ricercatrici e ricercatori, 2.504 donne e uomini del personale tecnico e amministrativo, 1.500 dottorande e dottorandi, 854 assegniste e assegnisti, 2.800 specializzande e specializzandi. Un ecosistema che accoglie e supporta studentesse e studenti, sempre in aumento; anche in anni di calo generalizzato a livello nazionale, l’Università di Padova ha sempre visto crescere il numero di ragazze e ragazzi che l’hanno scelta, tanto che ora sfioriamo quota 70mila iscritti. Ragazze e ragazzi ai quali auguro, come fu per Galileo, di trascorre a Padova “li migliori anni della loro vita”. Lasciatemi, prima di arrivare a conclusione, ricordare un altro fatto innegabile: il legame fra l’Ateneo e il territorio che lo ospita. “Padova e la sua Università” si sente spesso citare, ma potremmo dire: Padova è la sua Università. In quel verbo c’è il senso di una simbiosi che innerva da secoli l’Ateneo. Un legame con il territorio che si allarga sempre più in tutto il Veneto e non solo: le sedi di Bressanone, Castelfranco Veneto, Chioggia, Conegliano, Legnaro, Rovigo, San Vito di Cadore, Treviso, Vicenza non sono sedi periferiche, come talvolta vengono definite, ma parti integranti e vitali di un’Università sempre più diffusa e capillare. Gaudeamus igitur, quindi, per gli ottocento anni della nostra storia, una storia legata da sempre a doppio filo al concetto di identità europea. Un’Europa basata su quella libertà, ed è questo l’ultimo valore che voglio rimarcare, che caratterizza il nostro motto: Universa universis patavina libertas. Libertà di studio, di pen- siero, di espressione, di dibattito, e ancora libertà di movimento delle persone e delle idee, libertà religiosa, politica e accademica: declinazioni diverse di un unico fondamentale valore che – e ce lo dimostrano gli eventi dei giorni nostri, in questi mesi, penso all’Afghanistan, penso alla terribile e vile aggressione russa in Ucraina – non è scontato né garantito ora come non lo era ottocento anni fa, quando l’accademia patavina fu fondata».

Emma Ruzzon

«Ci troviamo oggi a celebrare per l’ottocentesima volta l’inaugurazione del nostro Ateneo, un momento glorioso e storico di un’Università che ha per motto e per vanto Universa universis patavina libertas: “tutta intera, per tutti, la libertà nell’Università di Padova” - ha detto Ruzzon - Mi chiedo però cosa significhi in realtà. Mi chiedo, in particolare, se si possa circoscrivere il concetto di libertà accademica alla sola libertà formale, giuridica e politica, di istruirsi e fare ricerca. Forse no, se scienza e ricerca continuano, e aumentano, il loro essere subalterne a dinamiche di profitto che niente hanno a che vedere con la ricerca stessa. Forse non è libera l’istruzione in un Paese in cui l’accesso alla carriera universitaria è ancora appannaggio di pochi privilegiati; se il nostro è uno dei sistemi di tassazione più alti d’Europa e, di contro, solo il 29% della popolazione giovanile riesce a laurearsi, penultima nell’Unione. Un Paese in cui il diritto allo studio regionalizzato porta spesso alla mancata redistribuzione dei già pochi fondi destinati a esso: alle borse di studio, a un trasporto pubblico gratuito ed efficiente, a residenze studentesche e mense. Ci viene insegnato, e aspetto volentieri correzioni se dico il falso, che studiamo per poter lavorare, e non per accrescere la nostra cultura, per poi ritrovarci in un mondo del lavoro che ci chiede di ringraziare per l’opportunità di essere sfruttati, perché “è così che si fa esperienza”, e in cui dobbiamo augurarci di non essere una delle tre morti sul lavoro del giorno. Ci dicono - ha continuato con decisione - che le opportunità ci sono, che è il merito quello che conta. Sono desolata, ma temo sia un’affermazione che non trova riscontro nella realtà. Mentre i giornali lodano “chi consegue egregi risultati”, nella pagina a fianco riportano storie di studentesse e studenti che durante il loro percorso di studi compiono il gesto estremo, scelgono volontariamente la morte. Ci sono incongruenze che non possiamo sottovalutare. Quanta importanza viene attribuita ai numeri, ai posizionamenti, ai punteggi statistici? E quanta invece al benessere delle persone che vivono in questi spazi? Quanta alla loro, alla nostra, salute psicologica? La risposta è scontata, se questa è ancora privilegio dei pochi che se la possono permettere. La salute psicologica va considerata al pari della salute fisica. La nostra Costituzione dichiara che “La Repubblica tutela la salute come fonda- mentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”, eppure è difficile non osservare come il diritto alla cura universale e pubblica sia sempre più subalterno al privato. Gli esiti li ab- biamo tristemente sperimentati durante il periodo di emergenza pandemica. Parlando di privilegio, mi domando come possa considerarsi libero un paese in cui la libertà è garantita nella sua totalità ad alcuni e centellinata per altri; in cui delle senatrici e dei senatori della Repubblica possono permettersi di applaudire pubblicamente l’affossamento di un disegno di legge che, pur in minima parte, mirava a tutelare la libertà di esistere di persone, cittadini; in uno stato che continua a chiudere gli occhi davanti alla sua evidente transfobia mentre conta il più alto tasso di omicidi di persone trans in Europa. Ancora, mi chiedo come sia possibile che all’interno dell’Unione coesistano politiche nazionali tanto diverse. E mi rispondo che non vi è da sorprendersi, se prevalgono gli interessi delle élite dei singoli Stati, se l’eredità di un passato coloniale persiste nell’incapacità di incidere, non solo nei rapporti tra Stati, ma soprattutto verso la transizione ecologica, ancora arenata. Serve davvero un’Europa dei popoli, serve riappropriarsi dell’idea originaria del Manifesto di Ventotene, affinché il mezzo miliardo di persone che la abita- no trovino il loro ruolo, partecipando alle scelte finalizzate all’interesse collet- tivo. In questo periodo storico è ancor di più necessario. Non c’è libertà per qualcuno se non c’è libertà per tutte e tutti. Oggi più che mai per il popolo ucraino, ma anche per quello yemenita, per quello palesti- nese, per quello siriano e per tutti i popoli oppressi e subalterni. Solo così le nostre pallide libertà, appese a un filo, smetteranno di essere un vano privilegio. Ecco, se ora finalmente voleste chiedere a noi, alla mia generazione, come stiamo, credo che difficilmente potremmo rispondere che ci sentiamo una generazione libera, quantomeno di poter immaginare il futuro. Allora, se per- mettete, vorrei porvi io una domanda: stiamo celebrando un ottocentenario, dal passato stiamo guardando il presente. Trenta, cinquant’anni fa, quale futuro vi eravate immaginati per noi? Noi non siamo il futuro, ma il presente, l’ha ribadito anche Lei, Presidente Mattarella, nel suo discorso di fine anno. Se siamo il presente, in quanto tale siamo specchio di un sistema passato che evidentemente non ha funzionato. Un’altra direzione da percorrere esiste, ma non spetta a me, in questo contesto, farmi carico di proposte. Qualora vogliate ascoltarci - ha concluso - ci troverete in ogni momento, in ogni luogo, a partire dalle Università, fuori dalle cerimonie ma nei nostri spazi, condivisi. Care istituzioni, non chiedete a noi di avere coraggio; noi ci faremo forza, ci uniremo, lo stiamo già facendo. Care istituzioni, abbiate voi il coraggio di guardare davvero al futuro, cercando di rimediare agli errori del passato. Abbiate il coraggio di chiederci come stiamo, e di assumervi la responsabilità della risposta. Abbiate il coraggio di ascoltarci».

Carlo Fumian

«Difficile immaginare onore più alto e, al tempo, compito più arduo: estrarre in una manciata di minuti l’essenza di ottocento anni di storia, di pensiero, di scienza, di cultura - ha detto il docente - Non vi è dubbio che questa essenza sia la libertà, ma essa si è arricchita in otto secoli di significati profondamente diversi, ha attraversato momenti oscuri e gloriosi, svelando il suo più caratteristico connotato storico: la fragilità. È a tutti noto che l’Università di Padova nacque da una diaspora bolognese: una sorta di partenogenesi che racconta l’origine di alcune tra le più antiche univer- sità proprio alla luce dell’anelito di libertà di piccole e assai mobili comunità di studenti e docenti. Da quei primi irrequieti fermenti aurorali, tra cui era Padova, un moto inarrestabile: già alla fine del XVIII secolo si contano in Europa ben 143 università, oggi nel mondo vi sono circa 31.000 Institutions of higher learning. Se dunque è vero che la storia dell’Università incarna l’esperienza culturale più longeva e di maggior successo della storia intellettuale umana, è altrettanto vero che essa è segnata da una crudele tensione tra autorità e sapere, tra scienza e potere, tra trasgressione e conformismo, tra ribellione intellettuale e persecuzione, tra genialità e servile obbedienza, tra dogma e libertà di pensiero (una «dimensione» dello spirito umano che ha anch’essa una sua storia e non è data). Una tensione che nel quadro della Repubblica Veneta, nei secoli centrali della storia dell’Università di Padova, darà vita a una sorta di proficuo paradosso, per la Patavina libertas, tra la «tutela» e la «distanza» (del e dal Potere della Serenissima)5: pur considerando Galileo come il punto di svolta, è stato osservato, ciò che Parigi era stata nel XIII secolo, e Oxford e nel XIV, "Padova divenne nel XV: il centro in cui le idee di tutta l’Europa si univano in un corpo di conoscenze organizzato e cumulativo. [...] La concezione della natura della scienza, [...] tramandata da Galileo ai suoi successori, appare piut- tosto come il culmine degli sforzi cooperativi di dieci generazioni di scienziati [...]. Per tre secoli i filosofi naturalisti della scuola padovana, in fruttuoso com- mercio con i medici della sua facoltà di medicina, si sono dedicati a criticare e ampliare questa concezione e questo metodo, e a fondarlo saldamente nell’at- tenta analisi dell’esperienza". Qualche secolo dopo la creazione di questo fertile «nuovo mondo intellettuale», in cui la lettura si fece lezione - ha proseguito - le università europee sono protagoniste di un’ulteriore rivoluzione culturale, radicata in un grande trauma davvero epocale: quando William Gilbert compone il De Magnete (1600), Francis Bacon la Nuova Atlantide (1626), e a Padova Harvey, Vesalio e Galileo rivoluzionano la scienza medica e l’astronomia, il mondo è proiettato in una dimensione completamente nuova in cui l’autorità dei testi antichi non offriva più un fondamento affidabile per le loro conoscenze. Le altre grandi civiltà non subirono alcun trauma del genere. [...] Così gli europei, più di ogni grande civiltà, scoprirono improvvisamente che la tradizione classica che avevano cercato di seguire doveva ora essere respinta se volevano comprendere la vera natura del proprio mondo e del proprio universo. Per farlo, bisognava sfuggire, sulle orme di Giovanni di Salisbury – filosofo e prelato inglese del XII secolo –, il vizio peggiore degli studiosi e dei professori: la vanità, maestra di arroganza e conformismo. Seguendo il filo della Patavina libertas, rovesciamo allora la prospettiva e partiamo dal Novecento. Ecco un esempio della lezione di libertà che Concetto Marchesi sapeva impartire, pur nel soffocante clima della retorica fascista. Echeggiando il celebre discorso mussoliniano sul «bivacco dei manipoli» seguito all’insedia-mento del suo governo dopo la Marcia su Roma, Marchesi scrive nel 1933: "Un’assemblea legislativa che non possa esercitare la sua sovranità nell’ordina- mento dello Stato è solo una assemblea di funzionari, di sudditi e d’intriganti: e in tali condizioni una caserma di pretoriani è più potente del Senato di Roma. [...] Basta un manipolo di soldati intorno alla curia perché tutte le bocche si aprano nell’acclamazione cortigiana e qualche bocca si chiuda. È il tempo del- la viltà eloquente e della collera muta". Il tempo del muto coraggio e della collera eloquente verrà dieci anni più tardi, scandito dalla creazione del Comitato di liberazione subito dopo l’8 settembre, dalla memorabile inaugurazione dell’anno accademico del novembre 1943 – in nome non già del re o del duce ma di un’Italia «dei lavoratori, degli artisti, degli scienziati» – e infine dal lancio del primo appello alla lotta armata contro nazi- sti e fascisti rivolto alla gioventù italiana da un rettore che a 64 anni infila una pistola in tasca, entra in clandestinità, raggiunge la Svizzera e da lì intrattiene i contatti tra la Resistenza veneta e gli alleati. Qui, in queste stanze, si guidava la Resistenza, grazie a uomini come Egidio Meneghetti (ma potrei citare decine di nomi); una guida politica ma anche militare, si badi bene, il che verrà ricono- sciuto dal conferimento a una Università, caso unico in Italia e forse in Europa, della medaglia d’oro al valor militare. Andando a ritroso lungo il filo della Libertas, molto vi sarebbe da dire su quel cruciale momento di svolta rappresentato dall’8 febbraio 1848 e la sua dimensio- ne pre-insurrezionale in cui l’Università, in particolare i suoi studenti, seppero essere fulcro di un’inedita alleanza politica con la città e aprire nel Nord Italia le ostilità antiaustriache ben prima di Milano e Venezia (e soprattutto ben prima che la rivoluzione incendiasse anche Vienna). Della tempesta rivoluzionaria deflagrata nei primi mesi del 1848 - ha fatto notare - i moti padovani sono certamente un episodio minore, ma ricco di significati peculiari, essenziali per interpretare la «rivoluzione italiana», e certamente un momento fondati- vo dell’identità dell’Università di Padova in età contemporanea, perché «segna l’inizio di una tradizione di impegno civile, che è singolare carattere distintivo della sua storia». Che Padova fosse stata l’unica università europea della prima età moderna a rivendicare «la libertà come nucleo della propria identità pubblica»14 verrà con- fermato dalla laurea conferita in filosofia a Elena Lucrezia Cornaro Piscopia nel 1678 (a Utrecht nel 1636 era stato concesso alla filosofa, teologa e scienziata olandese Anna Maria van Schurman di seguire le lezioni da una speciale nicchia protetta da una tenda, ma non di laurearsi). Vasto e profondo fu lo scalpore per la laurea padovana, ma le speranze di molte studiose europee andarono deluse: solo cinquant’anni dopo Laura Bassi poté laurearsi in filosofia a Bologna, con l’appoggio del papa Benedetto XIV, che offrì anche una cattedra di matematica a Gaetana Agnesi. Solo «il cielo è il limite», non le umane convenzioni, sosteneva Anna Maria van Schurman, rivendicando il pieno diritto delle donne all’eguaglianza nel campo dell’istruzione. Ecco un campo di ricerca e di azione civile e politica in cui l’Università potrà eccellere e farsi guida: la conquista di una vera Libertas femminile. Siamo oggi alle prese, soprattutto nelle università, con l’elaborazione di codici (linguaggi, comporta- menti, nuovi doveri, compiti individuali e collettivi) ispirati certo al grande bene di «non offendere nessuno» ma che spesso scolorano, nella pratica, anche in forme di censura e soprattutto di autocensura che rappresentano una minaccia gravissima alla Libertas, che va dunque oggi ripensata. In una prolusione napoletana di fine Ottocento, dedicata a L’Università e la libertà della scienza, Antonio Labriola ricordava che la libertà scientifica non è un diritto privato come gli altri: per considerarla tale «basterebbe starsene a casa, conversare, far propaganda e scrivere dei libri», perché «la libertà del dire non può consistere nella facoltà del non dire». Ancora: «Lo Stato, che definisce la scienza, è già una chiesa. Per definire occorre ci sia il domma e il catechismo». Allora - ha concluso - profonda è l’amarezza con cui leggiamo la Mozione dell’Unione dei ret- tori russi del 4 marzo 2022, in cui si afferma come sia dovere fondamentale dell’università «educare la gioventù al patriottismo e al desiderio di aiutare la Patria», perché «le università sono sempre state il baluardo dello Stato. Il nostro fine prioritario è servire la Russia. Oggi come non mai dobbiamo [...] unirci attivamente intorno al nostro Presidente [...]». Ecco icasticamente decretata la morte dell’Università e di ogni sua libertas, perché la ricerca non può essere posta al servizio dello Stato, qualunque esso sia».

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