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Da quel momento tutto è cambiato: il ricordo a Schiavonia a un anno dal primo caso Covid

Un momento commovente e intimo quello di sabato 20 febbraio dove si sono ripercorsi quei primi momenti che hanno portato, un anno fa, alla chiusura della struttura di Monselice. Immancabile il ricordo ad Adriano Trevisan, primo decesso per Coronavirus d’Italia

Sabato 20 febbraio 2021 all’ospedale di Schiavonia dirigenti, medici, infermieri, personale di turno e pazienti si sono ritrovati nella hall della struttura per ricordare quel venerdì indimenticabile, quel 21 febbraio 2020.  Una data che ha sconvolto e ha messo fine alla normalità come la conoscevamo prima, quella che non esiste più.

I fatti

Dopo la diagnosi di Covid-19 e il primo decesso per Coronavirus d’Italia (Adriano Trevisan, 77 anni, padre dell'ex sindaca Vanessa Trevisan) costrinsero l’organizzazione sanitaria a un rapidissimo adeguamento, con la chiusura dell'Ospedale Madre Teresa di Calcutta di Schiavonia.

La cerimonia

Accompagnati dalla musica del “pianista fuori posto” Paolo Zanarella la celebrazione è diventata una testimonianza commovente dei protagonisti (dirigenti, medici, infermieri, personale di turno e pazienti) che in quei primi momenti si sono ritrovati ad affrontare un'emergenza che ad oggi continua senza sosta.

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I primi sentimenti, le prime reazioni

La notizia del 21 febbraio 2020 è una bomba che fa rimanere attoniti: si scopre così che il virus che sembrava essere così lontano, a Wuhan, invece è proprio qui, nella bassa padovana. Il sentimento che accompagna i primi attimi è la paura, ma anche lo «smarrimento, l’incertezza. Eravamo dei funamboli sospesi nel vuoto», nessuno sapeva cosa sarebbe successo, nessuno era pronto. 

«Quella notte sono nati sei bambini»

«Amore, spiega tu ai bambini che la mamma stasera non torna a casa, deve rimanere in ospedale», così racconta Francesca Fabris, l’ostetrica, che si è ritrovata come tutti coloro che erano all’interno della struttura richiusa ad attendere il test. «Mentre fuori era il caos, qui la vita continuava e sono nati in quella notte sei bambini». La paura anche qui non mancava, ma a mancare erano anche le risposte alle tante domande dei pazienti.

Il senso del dovere

Le testimonianze continuano e ognuno racconta una storia di coraggio, di altruismo, di personale che si è messo a disposizione per aiutare a effettuare i tamponi, come i ragazzi del pronto soccorso. Il fil rouge è sempre il senso del dovere, una vocazione che va oltre a tutto, va oltre al dover condurre una vita attenta per proteggere pazienti e i propri cari, va oltre ai turni massacranti, va oltre al fatto che anche bere un sorso d’acqua imbragati (mascherine, tuta, visiera, ecc.) diventava estremamente complicato.

Non abbassare la guardia

Tutto è cambiato dal quel 21 febbraio ma poi, «piano piano le indicazioni sono arrivate e nel tempo abbiamo imparato ad essere ottimisti, a credere a quel desiderio che c’è in noi di ripartire». Ripartire con nuovi strumenti (anche l’evento della giornata veniva trasmesso in streaming su Facebook) e nuove consapevolezze che il virus ci ha imposto. Abbiamo imparato a famigliarizzare con parole inglesi come lockdown, smart working, screening, ecc.; abbiamo imparato a metterci la mascherina, stare distanti e usare il gel igienizzante; abbiamo imparato e ci siamo abituati a ordinare per asporto. La nostra vita è cambiata, nessuno può sapere cosa succederà, ma ascoltare le testimonianze di chi ha affrontato quei primi momenti concitati lascia una forte consapevolezza: non abbassare la guardia, non prendere il virus sottogamba perché lui di certo non lo fa, e basta con i «Ma sì, a me non capita» perché anche un anno fa pensavamo che non ci sarebbe mai successo e invece poi è successo.

Foto dalla pagina Facebook di Ulss 6 Euganea

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