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Padova da Vivere

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A cura di PadovaOggi

Verso Halloween "Padua dungeon" Lo spettro innamorato del castello

Non tutte le notti sono uguali a se stesse al castello di Monselice. Succede, in certe notti particolari che capitano solo una o due volte l'anno, che il vento si insinui e si ingolfi fra i saliscendi delle viuzze fortificate dell'antico maniero, che vortichi fra i suoi punti ciechi e risalga poi urlando lungo le Dodici Chiesette. Notti dall'aria leggera e dall'oscurità insondabile, in cui la luna non osa mostrare la sua luce e le stelle preferiscono restar nascoste dietro le nuvole, per non sentire i lamenti che provengono da quei solidi mattoni che, di storie, di vite e di fatti di sangue, ne hanno visti fin troppi.

In una notte buia e ventosa, una di quelle notti in cui la luce non osa mostrarsi, salivano Anna e Marco verso la sommità della Rocca. Ai due giovani innamorati piaceva, quando per strada non c'era nessuno e solo lo stormire delle fronde faceva da cornice ai loro baci, salire dove di notte nessuno andava, in alto, dove i grilli cantano più forte e le luci della pianura scappano scemando e tremolando verso la Laguna per accoccolarsi l'uno fra le braccia dell'altra e scambiarsi quel calore che solo gli innamorati sanno darsi, donarsi due o tre di quelle parole dolci che solo chi sente il cuore battere nel petto riesce a prununciare.

Ma quella sera no. Quella sera il sentiero di Anna e Marco non sarebbe arrivato fino al culmine della Rocca: qualcuno, o qualcosa, li stava aspettando. Dalla piazza i due ragazzi cominciarono a salire verso il castello come solevano fare ogni volta che vi si recavano, Marco, atletico e un po' sbruffone, cantando le sue canzoni e corricchiando avanti e indietro attorno ad Anna, più riflessiva e sensibile, che preferiva invece guardarsi attorno e godere del gioco del vento e delle ombre, percepire il carico di vita e di storia che quelle antiche mura irradiavano. Salirono come tante altre volte avevano fatto, animati dall'inconfondibile sorriso che solo chi ha vent'anni sa vestire, e, poco dopo la piccola curva oltre l'osteria al Castello, dove la viuzza si fa più pietrosa e oscura, Marco corse avanti per giocare uno dei suoi soliti scherzetti all'innamorata, appostarsi dietro un angolo osuro per poi saltar fuori all'improvviso al passaggio di lei che avrebbe fatto finta di spaventarsi e si sarebbe lasciata abbracciare. Quella volta, però, Marco non potè completare il suo piano. Si fermò invece poco prima di nascondersi alla vista di Anna immobile in mezzo alla strada, congelato da qualcosa che aveva visto e che l'aveva spaventato.

"Marco?", lo chiamò Anna, ma lui non rispose. Preoccupata, lei corse avanti verso il suo ragazzo per capire cosa succedesse, e con quattro o cinque rapide falcate lo raggiunse, afferrandogli il braccio da dietro. "Marco, cosa c'è?", chiese lei, ma Marco ancora non rispose. Continuò a osservare l'oscurità avanti a lui, invece, con gli occhi fissi e spalancati di chi prova autentico terrore. Anna guardò allora nella direzione in cui il suo amato stava fissando, e fu allora che la vide.

Una decina di metri avanti a loro, avvolta nell'oscurità di cui faceva parte, un'ombra fluttuava a destra e a sinistra a una decina di centimetri da terra, un'ombra dalle sembianze di donna, avvolta in abiti vaporosi e svolazzanti, il volto poco più che un teschio chiazzato qui e lì di macchie di pelle raggrinzita dall'impietoso destino che accomuna i cadaveri, bussando a questo e a quell'uscio senza produrre il minimo rumore. Marco cominciò a respirare con affanno; Anna, semplicemente, guardava.

Giunta sotto la luce di un piccolo lampione, l'ombra si fermò, bussando alla porta che aveva avanti a sé. Poi girò il capo e vide i due innamorati; subito girò il suo corpo, e con decisione si fece avanti nella direzione dei due, inesorabile e silenziosa come sospinta dal vento. Marco fece il gesto di scattare all'indietro, per cominciare una fuga che l'avrebbe riportato fra le luci della piazza, ma Anna tirò il suo braccio verso il basso, trattenendolo. "Aspetta - gli disse - non ci farà niente".

L'ombra giunse a una manciata di centimetri dai due innamorati, mostrando tutto l'orrore del suo volto: la mascella squadrata si apriva in una dentatura candida rotta a tratti da qualche frammento di labbro putrefatto, due buchi che una volta erano stati il suo naso conducevano alle voragini oscure dei suoi occhi, che sottostavano a una fronte appena coperta da un sottile strato di pelle polverosa incorniciata da qualche ciuffo di capelli radi e crespi che scendevano su guance secche e bucate che lasciavano intravvedere la profondità di una gola aperta dal tempo e dai vermi.

Il cuore scoppiava nel petto di Marco, impietrito e pallido come la cera di una candela. Un sibilo fuoriuscì dalla bocca dello spettro. "Dov'è il mio Giacomino?", chiese l'ombra. "Noi non lo sappiamo - rispose Anna, calma e gelida come la notte - ma non disperare, Giuditta. Prima o poi lo troverai". A sentire quelle parole lo spettro reclinò all'indietro il capo, prorompendo in un sospiro di sollievo; il vento la cullò allora all'indietro, riportandola silenziosamente nell'oscurità dove si dissolse. Marco si svincolò allora dalla presa di Anna e cominciò una fuga disperata verso la piazza e le sue luci, inseguito da lei che lo chiamava chiedendogli di fermarsi, d'aspettarla; nulla, però, neanche il diavolo in persona potevano fermare in quel momento la fuga di Marco, spaventato come mai nella sua vita e desideroso solo di trovare di nuovo la luce, di sentire ancora parole scambiate fra vivi.

Non si guardò indietro, non si fermò, finché il barista dell'ultima bettola aperta nella notte di Monselice non gli ebbe messo in mano un bicchiere colmo di grappa. Anna lo guardò, silenziosa e seria, appena un po' affannata, mentre lui vuotava d'un fiato il suo bicchiere. Subito ne ordinò un'altra, il barista gliela versò e lui ne bevve un altro sorso. "Chi, che cos'era?", chiese Marco ad Anna, fra i sospiri e la smorfia che la grappa aveva imposto al suo viso. "Era Giuditta, l'amante di Giacomino", rispose lei, seria come la morte. Lui la guardò, con sguardo che virava dallo spaventato all'arrabbiato, e il suo volto le diceva che voleva sapere, che aveva il diritto di sapere, perchè i suoi occhi avevano visto qualcosa che aveva reso inerte la sua mente e che gli aveva gelato il sangue. Anna sospirò, e cominciò a raccontare.

"Quella di Giuditta e Giacomino è una storia che rimbalza di bocca in bocca fra i vecchi di Monselice da almeno settecento anni", gli spiegò. "Pochi anni dopo che Francesco Da Carrara ebbe completato le mura del Castello, scoprì che suo nipote Giacomino lo stava tradendo, e stava cercando di siglare un'alleanza segreta con i veneziani per spodestarlo e diventare il signore di Padova. Lo attirò così qui al castello con un inganno, e attraverso una botola nella sala dei ricevimenti lo scaraventò nei sotterranei del castello, con l'intenzione di dimenticarsene e di lasciarlo morire di fame. Nei giorni seguenti molti, fra Padova e Monselice, si chiesero che fine avesse fatto il giovane, ma presto la loro domanda venne ricacciata nel profondo del petto dalla paura di fare la sua stessa fine. Nessuno osò più domandare, tranne una donna, Giuditta, la bella amante di Giacomino, che non riusciva a rassegnarsi all'idea di aver perso per sempre il suo amore. Chiedendo, indagando e ammaliando guardie e potenti, Giuditta scoprì infine che Giacomino era stato rinchiuso nelle segrete del Castello, così vi si recò, con l'intenzione di non muoversi dai suoi cancelli finché non avesse visto il suo uomo. 

Mesi e mesi bussò alle porte del maniero, piangendo e strepitando disperata, e talvolta alle sue grida dal profondo delle segrete rispondevano quelle strazianti di lui, ma i secondini inflessibili non la lasciarono passare. Non bastò l'amore a intenerire il cuore degli sbirri, non il dramma a sciogliere le loro coscienze, nemmeno le suppliche a spingere le loro mani a togliere il chiavistello dalla porta per farla entrare. Fu invece l'oro a piegare la lor virtù, e Giuditta non esitò a spendere ogni moneta che avesse e che potesse procurarsi per poter vedere, solo per una volta, il suo innamorato.

A Francesco, però, la notizia di quella donna disperata che non faceva che aggirarsi per Monselice piangendo e urlando, chiedendo a chiunque dove fosse Giacomino, era giunta, e il piano per eliminare quel problema era già da tempo delineato mentre Giuditta scendeva le scale che conducevano alle segrete scortata dalla torcia di uno dei carcerieri. Qui, dietro alle spesse sbarre di una cella, vide per l'ultima volta il suo innamorato: scheletrico, quasi calvo ormai, il suo sorriso un tempo solare non era ora adornato che da due o tre denti; l'incarnato verdognolo prorompeva talvolta in macchie bluastre, e le braccia ormai sottili come giunchi non avevano la forza di alzare la mano a toccare quella di lei, protesa fra le sbarre. Piangeva, Giuditta, mentre lo stesso sgherro che l'aveva condotta dal suo amato l'afferrava da dietro sollevandola; scalciava, l'infelice, mentre questi la scaraventava nella cella accanto a quella di Giacomino; urlava di strilli che si affievolivano mano a mano che le mani degli sbirri muravano mattone per mattone le volte che delimitavano le celle dei due amanti, sigillandoli in un destino che era fatto di fame, di sete e di oblio. 

Questa era la sorte che Francesco aveva riservato agli innamorati: morire di fame in una segreta umida, a monito per tutti coloro che avessero voluto tradirlo. Nei giorni seguenti, i monselicensi credettero di impazzire per le urla strazianti che provenivano dalle segrete del castello: nessuno voleva più condurre i carretti delle vettovaglie verso il mastio, evitando come la peste quelle urla ovattate dalla terra, dal ferro e dai mattoni che giorno dopo giorno si facevano sempre più flebili ma che pareva non dovessero mai rassegnarsi al silenzio. Finché un giorno i monselicensi non sentirono più nulla, e la loro vita poté riprendere uguale a se stessa, lenta e faticosa, solo con un brivido di terrore in più ogni volta che i carrettieri passavano davanti alle grate che si aprivano sui sotterranei del Castello.

Ma la tortura del popolo di monselice non finì con le grida dei due amanti: ci sono notti strane, notti tetre, in cui il vento soffia fra le mura del castello, in cui la luna non osa mostrare la sua luce e le stelle preferiscono restar nascoste dietro le nuvole. Notti orribili e cariche di memoria, in cui il vento canta le grida dei due innamorati incuneandosi fra i merli della fortezza, e le fronde degli alberi salutano ondeggiando la tragedia di Giuditta e Giacomino. Uno spettro, in quelle notti, si aggira per le strade oscure di Monselice, chiedendo ai passanti notizie del suo amato. Uno spettro innamorato, che non chiede altro se non di sapere che prima o poi lo troverà. Puoi fuggire, restare di sasso oppure scegliere di mentire e di rassicurare quella visione truce, ma non puoi fare in modo di non incontrare Giuditta, se cammini per le vie di Monselice quando il vento soffia, la luna manca e le stelle si nascondono".

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