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Cronaca

Caso Tindaci, dopo 17 anni parla il medico che intervenne quella notte: «Non guidava Mattia»

Paolo Tognato è stato uno dei primi ad arrivare sul posto la tragica notte del 5 aprile 2005, quando 3 giovanissimi della "Padova bene" persero la vita in un incidente stradale. Nessuno lo ha mai cercato. Anni di battaglie legali tra genitori, ma la verità non è mai emersa tutta. Lui conferma la versione della famiglia Tindaci

«Io sono talmente convinto di quello che ho visto, diciassette anni fa, che potrei anche disegnarlo (nel video in basso lo fa veramente) quello che ci siamo ritrovati davanti quella notte talmente ho un'immagine chiara in testa. Non si può scordare. La scena era così drammatica che non si può rimuovere o dimenticare. E io ricordo tutto, anche se è passato tanto tempo. Eppure, sa qual è la cosa strana? Che nessuno me lo ha mai chiesto cosa abbiamo visto quella sera io e gli altri che siamo intervenuti. Inquirenti, giudici, giornalisti, nessuno mi ha mai cercato. Né a me e neppure agli altri. Una cosa che mi è sempre parsa un po’ anomala. Non ho mai capito come mai nessuno di quelli che è intervenuto quella sera sia stato mai stato sentito».

Chi è Tognato

Settant’anni portati benissimo, due grandi occhi azzurri che non mollano mai quelli dell’interlocutore, il dottor Paolo Tognato è stato uno dei primi a intervenire la tragica notte del 5 aprile 2005, a Riese Pio X, in provincia di Treviso, quando in uno spaventoso schianto in auto, muoiono tre ragazzi. Uno è Mattia Tindaci e gli altri due sono i fratelli De Leo, Vittorio e Nicola. Si salvano, Francesca Volpe e Alessandro Fantinelli. Entrambi feriti, lui in modo più grave, se la caveranno. Appartengono tutti a famiglie importanti della città. «Io lo so che vuoi sapere di Mattia», dice manifestando disponibilità ma anche forse l'esigenza di liberarsi di un peso. Da anni un contenzioso legale cerca di stabilire chi fosse alla guida dell’auto quella tragica sera. La famiglia Tindaci lotta per dimostrare, mettendo a disposizione prove e testimoni che vengono sistematicamente ignorati, che il loro figlio Mattia non poteva essere alla guida dell'auto. Le parole del dottor Tognato confermano questa tesi. Eppure, come si diceva all’inizio, nessuno lo ha mai voluto ascoltare.

Il racconto di quella sera

«Facevo il medico per le emergenze, avevo 25 anni di soccorso alpino alle spalle. A Crespano, da dove siamo partiti con il mezzo per il pronto intervento quella notte, lavoravo proprio perché abituato agli interventi di soccorso in montagna. Ma se c’era bisogno - accadeva frequentemente a dire il vero - si interveniva anche per gli incidenti stradali, come capitò quella notte». Tognato è quindi un medico esperto, con capacità tecniche che gli permettono di muoversi in aree ostili. Uno che è abilitato al soccorso col gancio baricentrico, quelli che operano appesi agli elicotteri di pronto intervento. Non proprio uno qualunque. «Sono tutte qualifiche che si conquistano sul campo, per quelle non basta studiare» ci dice sorridendo. Non deve essere facile neppure per lui tornare a quella sera. «Avevo due pazienti gravi da seguire. Un ragazzo in coma e una ragazza. C’eravamo io e l’infermiere. L’attenzione principale in quel momento era tutta dedicata a loro. Siamo arrivati noi per primi, subito dopo i vigili del fuoco. Mentre soccorrevamo i sopravvissuti loro hanno estratto altri due ragazzi, deceduti sul colpo. Poco dopo però mi chiamano segnalandomi la presenza nell’auto di un quinto ragazzo, incastrato tra i sedili anteriori e posteriori, coperto da un cappuccio. Non si vedeva dall’esterno, la felpa che indossava era scura, era notte ed era buio. Non c'erano tracce di sangue o lesioni particolari, poteva essere semplicemente svenuto o in coma. Una volta estratto abbiamo quindi cercato di rianimarlo, l’infermiere ha così tagliato la felpa scura che indossava, per poter agire sul torace. Purtroppo non c'era più nulla da fare, i nostri tentativi sono stati vani». Mattia è stato l'unico, oltre ai due sopravvissuti, che si è tentato di rianimare. 

La felpa

L’infermiere che lavorava con il dottor Tognato usava sempre tagliare gli indumenti in diagonale, non centralmente come si vede fare più comunemente. «Era quasi la sua firma, quella di tagliare gli indumenti così. Quando parecchi mesi dopo l’incidente sono stato contattato dalla famiglia Tindaci, mi hanno mostrato una felpa. L'ho riconosciuta subito. Il taglio fatto in quel modo, il modello della felpa. A quel punto, ho capito che il ragazzo che abbiamo trovato in quello stato, rannicchiato e coperto dal cappuccio dentro quell’auto, era loro figlio Mattia. Per questo qualche giorno dopo ho depositato ai loro legali, gli avvocati Tolomei, una memoria firmata. Ma poi non è più successo nulla e non mi ha mai più cercato nessuno». Immaginiamo che per il suo lavoro gli sarà successo di essere chiamato in tribunale: «Solo come testimone – accenna una risata il dottor Tognato anche per allentare un po' la tensione – mi è capitato, certo. Nel nostro lavoro può succedere. Per questo ero sicuro che, prima o poi, qualcuno di quelli che sono intervenuti il 5 aprile 2005 sarebbe stato chiamato a testimoniare. Invece, come dicevo, oggi è la prima volta che qualcuno mi domanda di quella notte. Dopo diciassette anni».  

La memoria

A fine intervista gli mostriamo e gli facciamo rileggere la sua memoria (di cui pubblichiamo l'immagine qui sotto) depositata agli avvocati Francesca e Vieri Tolomei, datata 10 dicembre 2007. «Ricordo oggi le stesse cose di allora», ci dice con un certo compiacimento. Poi torna immediatamente serio: «Una scena del genere non mi era mai capitata, non si può scordare. Eppure mi è successo di tutto e di più in carriera. Ho visto auto rovesciate, finite nel canale o in un fosso, ma questa macchina era completamente incastrata sul platano, avvolta al platano, con quei due corpi davanti che uscivano sul cofano anteriore. Ed erano uno sopra l’altro, leggermente sfalsati ma talmente esposti che avevano le teste all’altezza dei passaruota. Da questo abbiamo subito capito che erano seduti uno sopra l’altro e senza cinture. Il parabrezza è saltato immediatamente e loro sono finiti per questo così, forse è anche per questo che si sono salvati». Non ha mai avuto neppure una sola esitazione durante tutto il tempo che passiamo con lui. «Avevamo figli più o meno di quell’età, noi che siamo intervenuti. Quando abbiamo visto in che condizioni era l’auto, quei corpi penzolare fuori e i due all’interno, poi trovato anche Mattia che solo mesi dopo ho scoperto chiamarsi così, ci siamo trovati di fronte a una tragedia immane. Ragazzi nel fior fiore dell’età, con tutta una vita ancora da vivere. Come si fa a restare indifferenti? Anche chi è abituato a fare questo tipo di interventi e che deve mantenere grande lucidità, è un essere umano. In una notte, tre vite stroncate e chi lo sa quante rovinate da un dolore che è certamente impossibile da cancellare. Per questo mi sono sempre domandato perché, i giornali li leggo e so che c’è una battaglia legale in corso, non ci abbiano mai chiamati. Io credo sarebbe giusto, non fosse altro per chi, a distanza di diciassette anni, ha diritto di trovare pace».

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