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Cronaca

Coronavirus, Navalesi: «In Veneto il virus è clinicamente morto, oggi il problema è sotto controllo»

Spiega il direttore dell'istituto di Anestesia e Rianimazione all'Ospedale di Padova: «Non ho mai visto prima una cosa simile, e spero di non rivederla mai più. Inserendo le terapie sub-intensive abbiamo fatto la differenza»

«Non ho mai visto prima una cosa simile, e spero di non rivederla mai più». È bene iniziare da questa frase, perché a pronunciarla è il professor Paolo Navalesi, direttore dell'istituto di Anestesia e Rianimazione dell'Azienda Ospedaliera di Padova, ospitato nel corso della consueta conferenza stampa del Governatore Luca Zaia. O meglio, protagonista della stessa in quanto ha risposto per un'ora esatta alle domande dei giornalisti. Un motivo ben preciso c'è: lo ha fatto in maniera sincera e trasparente, esponendo il suo reale pensiero. E fornendo così un quadro davvero completo di quello che il Coronavirus è stato, è e forse sarà.

Terapie intensive

Il professor Navalesi inizia la sua analisi da un ragionamento: «La terapia intensiva rappresenta per alcuni versi la sconfitta del sistema, perché se hai troppi malati in terapia intensiva vuol dire che qualcosa non ha funzionato: in Veneto abbiamo avuto un rapporto tra ricoveri totali e ricoveri in terapia intensiva al massimo del 20%, siamo stati tra i migliori in Italia se non i migliori».

«Il virus clinicamente non c'è più»

Per poi buttare subito il "carico": «Ha ragione il mio amico professor Zangrillo, il virus clinicamente non c'è più perché al momento io ho in terapia intensiva a Padova più pazienti con infezioni batteriche multiresistenti di quanti non ne abbiano ora tutte le terapie intensive del Veneto malati di Coronavirus. Oggi il problema è sotto controllo e dobbiamo cercare di mantenerlo come tale, ma dal mio punto di vista è già dietro alle spalle anche se è stata una scommessa importante».

«Mai visto prima una cosa simile»

Guai, però, a pensare a qualcosa di semplice, perché quanto affermato poi dal professor Navalesi rende al meglio l'idea: «Quando da noi stava iniziando l'epidemia io ero in conferenza telefonica con un mio collega amico di Wuhan che mi ha raccontato quello che avevano passato. Nonostante ciò, in tutta onestà vi devo però dire che non mi aspettavo nulla di tutto quello che è successo, non mi aspettavo una simile patologia, avrei scommesso su qualcosa che assomigliasse più all'H1N1 e ho sbagliato in pieno, quindi per noi è stata una vera novità. Non ho mai visto prima una cosa simile, e spero di non rivederla mai più».

Strategia

Il professore, quindi, rivela una "strategia" e ne mette in evidenza un'altra già nota: «Mi sentivo ogni giorno coi colleghi di Milano, e abbiamo cercato di fare tesoro della loro esperienza e delle loro difficoltà. Abbiamo fatto i nostri calcoli basandoci su quanto stava accadendo in Lombardia. Alcune cose non le rifarei, ma del senno di poi sono piene le fosse. Ci siamo inventati un'intercapedine tra le terapie intensive e i posti in malattia infettiva, e inserendo la fase intermedia delle terapie sub-intensive abbiamo fatto la differenza. Noi così non abbiamo mai avuto il problema di dover scegliere chi curare e chi no, da altre parti purtroppo non sono stati così fortunati».

Recrudescenza?

Quando può gli si chiede un parere riguardo a un eventuale ritorno del Covid-19 in autunno, il professor Navalesi utilizza una parola a dir poco forte: «Chiunque oggi faccia una previsione su quello che accadrà a ottobre per me è un demente. Io non so cosa succederà, affronto solo i problemi che vedo e conosco e quello che abbiamo imparato è grazie alla ricerca che abbiamo fatto. Io e il professor Zangrillo siamo molto amici, e credo che abbia detto una cosa di buon senso perché anche in Veneto il virus è clinicamente morto. Se vuole le dico quanti pazienti con l'influenza ho io in terapia intensiva a febbraio, sono numeri maggiori rispetto a quelli di adesso, è infinitamente peggio».

Considerazioni finali

Chiusura con un paio di importanti considerazioni: «Siamo riusciti a gestire questo "casino", e sono convinto che oggi non si possa fare buona clinica senza la ricerca. È stata dura, ho visto arrivare pazienti lucidi e diventare moribondi nel giro di una notte ma mi sento tranquillo in caso di recrudescenza perché se a inizio pandemia ci abbiamo messo giorni a capire cosa fare ora ci metteremmo al massimo qualche ora. Ma se io dovessi scegliere dove morire non mettetemi in una terapia intensiva».

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