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Venerdì, 19 Aprile 2024
Economia

Moda, in due anni perse 42 aziende del settore nel Padovano: l'allarme di Confartigianato

«Il sottobosco di imprese che operano senza rispettare le regole sta sempre più danneggiando chi lavora alla luce del sole, una concorrenza sleale che rovina tutto il comparto, ma che finisce per colpire anche il consumatore finale, che non ha nessuna garanzia su ciò che compra»

Quarantadue aziende del settore moda perse a Padova in due anni: un dato a dir poco preoccupante.

I dati

Il motivo di tale morìa lo riassume Laura Dalla Montà, presidente del sistema di categoria tessile abbigliamento e cuoio di Confartigianato Imprese Padova: «Il sottobosco di imprese che operano senza rispettare le regole sta sempre più danneggiando chi lavora alla luce del sole, una concorrenza sleale che rovina tutto il comparto, ma che finisce per colpire anche il consumatore finale, che non ha nessuna garanzia su ciò che compra». Secondo i dati di Unioncamere, nel 2018 operavano in provincia di Padova 1780 aziende artigiane del settore moda (tessile, abbigliamento, pelletteria, calzature, pelliccerie, sartorie, pulitintolavanderie e occhialerie), oggi invece le aziende del comparto ammontano a 1738. Se si considera il solo comparto dell’abbigliamento, dalle 717 imprese del 2018 siamo passati a 697 imprese attualmente attive. Aggiunge Dalla Montà: «Va fatta chiarezza sui laboratori nati al solo scopo di risparmiare sui costi e aumentare i profitti a discapito delle aziende oneste che pagano le tasse e rispettano tutte le regole, pagando, ad esempio, gli alti costi aziendali per ambiente e sicurezza. Lavorare nel rispetto delle regole significa operare considerando i giusti turni di lavoro, mettere in atto tutti i piani di sicurezza per evitare gli infortuni sul lavoro, utilizzare macchinari sicuri, realizzare capi con materie prime di qualità che non provochino danni alla salute o non si rovinino al primo lavaggio».

Contraffazione

L’ultimo rapporto sulla contraffazione in Europa (Euipo e Ocse) stima, nel nostro Paese, che ogni 12 mesi vengono persi 88 mila posti di lavoro (circa il 2,1% del totale degli occupati a tempo pieno nei settori coinvolti), con un mancato gettito fiscale dal commercio all’ingrosso e al dettaglio per 4,3 miliardi di euro, e un mancato pagamento di diritti di proprietà intellettuale ai legittimi titolari italiani per altri 6 miliardi, superando così i 10 miliardi di perdita annua. Dati che si riferiscono al solo 2016, l’Italia si posiziona come il terzo Paese al mondo più colpito dalla contraffazione (15% del valore complessivo delle merci sequestrate) dopo Stati Uniti (24%) e Francia (16,6%). Il 60 per cento delle merci riguardano calzature, abbigliamento e pelletteria. Aggiunge Laura Dalla Montà: «Il termine sostenibilità è tra i più in voga del momento, nel mondo della moda, ma se vogliamo essere davvero sostenibili, non possiamo limitarci alle considerazioni di tipo ambientale. Significa anche avere consapevolezza che il capo che indossiamo non è frutto di lavoro nero, ma è realizzato in laboratori che garantiscono il rispetto dei lavoratori e la qualità del prodotto finale».

Cambiamento culturale

In questi anni sono state cercate soluzioni ad un problema che va affrontato in modo sistemico: ««isogna attuare un cambiamento culturale, sia a livello di operatori che di legislatori e controllori. Un punto di partenza è la “buona pratica” adottata a Prato di applicazione dell’articolo 603 bis del codice penale, introdotto nell’ottobre del 2016 con la Legge 199, che ha riscritto il reato di “intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro”, ampliando la tutela delle vittime e migliorando la qualità degli strumenti repressivi a disposizione dell’autorità giudiziaria. Secondo, presentando al Ministero della Giustizia un progetto di riforma dei reati in materia di lavoro nero e contraffazione nel sistema moda. Il problema non è solo elaborare delle buone norme, ma anche farle applicare con i controlli, con il processo e con una cultura della legalità degna di questo nome. Una normativa che dovrà essere imperniata sulla figura del consumatore finale. La frode va sanzionata in quanto lesiva soprattutto degli interessi del destinatario ultimo del prodotto. E, sempre pensando al consumatore, che preveda la valorizzazione dell’etichetta parlante, comprensibile e trasparente, che faccia realmente cogliere cosa c’è dietro il prodotto e quale sia il suo valore in termini di rispetto dei princìpi etici e sociali. Un controllo della concorrenza sleale che sia trampolino di lancio per affrontare il tema del giusto compenso».

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