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Economia

Crollano i prezzi di mercato dei prodotti agroalimentari. Ma quelli di vendita "schizzano" in alto

«Nell'immaginario collettivo sta passando un messaggio sbagliato, ovvero che l'incremento dei prezzi finali comporta, a cascata, un maggior guadagno a beneficio degli agricoltori: non è così. I margini si perdono lungo la filiera e agli imprenditori rimangono solamente le briciole».

-36% per un chilo di carne suina (da 1,70 euro al chilo a 1,10 euro), -28% per un chilo di carne di coniglio (da 1,81 euro a 1,31 euro), -21% per un litro di latte (da 0,39 centesimi al litro a 0,30 centesimi): il post emergenza Covid-19 spinge al ribasso il valore delle tipicità nostrane, che vengono pagate cifre irrisorie ai produttori.

Prezzi giù

Con la conseguenza che nell’attuale contesto molti di loro stanno addirittura lavorando in perdita, tanto che Cia Padova chiarisce: «Si augurano passi presto questo periodo di speculazione». Paradossalmente, però, per il consumatore il prezzo finale ha subito un incremento, mentre per le 11.994 aziende agricole della provincia (tante sono quelle iscritte nel Registro delle imprese della Camera di Commercio) il guadagno non è mai stato così basso, almeno in proporzione. Agli agricoltori rimane il 20%, se è tanto, dello stesso prezzo finale: questo è il quadro tracciato da un recente studio della Cia. Nello specifico, i beni alimentari hanno subito, nel complesso, un rincaro del 2,8%, come viene evidenziato nell’ultima “Nota mensile sull’andamento dell’economia italiana” redatta dall’Istat. Qualche esempio: ai mercati contadini un chilo di ciliegie viene venduto a 5 euro, mentre in alcuni supermercati si trovano a 7,90 euro al chilo; gli asparagi verdi vengono 5,90 euro al chilo ai mercatini e 7 euro al chilo in diversi market; infine, i cipollotti scontano una differenza di 3,42 euro (4 euro al chilo ai mercatini, a fronte di 7,42 euro al chilo nei supermercati). Sottolinea Maurizio Antonini, direttore di Cia Padova: «I numeri ufficiali forniti dall’Istat e dalle associazioni dei consumatori dimostrano che i prezzi finali sono schizzati in alto, apparentemente senza una logica. Nell’immaginario collettivo sta passando un messaggio sbagliato, ovvero che l’incremento dei prezzi finali comporta, a cascata, un maggior guadagno a beneficio degli agricoltori: non è così. I margini si perdono lungo la filiera e agli imprenditori rimangono solamente le briciole».

Vendite su

Secondo l’Osservatorio “The World after lockdown” di Nomisma, peraltro, durante la quarantena le vendite di verdure hanno registrato un +13,4%, quelle della frutta un +20,4%. Su tutti, arance, kiwi e mele, ricche di vitamina C. Cia Padova puntualizza che «gli agricoltori rischiano di andare in crisi anche a motivo di una nuova voce di costo fisso, ovvero le misure finalizzate a igienizzare gli ambienti chiusi, i trattori e i mezzi agricoli. Oltre che l’acquisto di guanti e mascherine per i lavoratori dipendenti e gli stagionali. Secondo una ricerca interna, ogni azienda sarà tenuta ad investire, in media, 1.000 euro fino al termine della pandemia”. Spese che si aggiungono a quelle per il carburante e l’irrigazione dei campi. La prolungata siccità, infatti, ha costretto ad irrigare gli appezzamenti avvalendosi di motorini che “pescano” l’acqua dai fossati. Un’operazione, questa, che per un ettaro di grano viene fra i 150 e i 200 euro. Illustriamo dei dati incontrovertibili: per produrre un litro di latte servono 0,39 centesimi, mentre ad aprile le latterie hanno imposto un prezzo di acquisto a 0,30 centesimi, prendere o lasciare. Non possiamo avallare un sistema che è in perdita già in partenza». Una soluzione? Ancora una volta, dare piena fiducia alle quasi 12mila imprese agricole padovane, come spera Roberto Betto, presidente di Cia Padova: «Un paio di mesi fa girava sui social uno spot che invitava i consumatori a ricordarsi delle attività di vicinato pure una volta conclusa la fase acuta dell’emergenza. Ciò deve valere anche per le aziende dell’agroalimentare. A questo proposito chiediamo che la politica, tanto a livello locale che nazionale, porti avanti misure finalizzate alla valorizzazione dei nostri territori e dei prodotti italiani. Il made in Italy è un marchio sinonimo di bontà, genuinità e assoluta garanzia».

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