rotate-mobile
Attualità

Caso Evyrein, perché l'indagato va prosciolto e il reato di vilipendio va abolito

Un corsivo pubblicato su Faiinformazione.it mette a nudo le crepe, sia sul piano giuridico sia etico, dell'azione messa in campo da Digos e procura di Padova nei confronti del writer scledense: sullo sfondo poi rimane una categoria di illeciti penali che comunque deve essere cancellata dal codice

Il caso dell'inchiesta giudiziaria seguita alla realizzazione a Padova di un murale satirico eseguito con la tecnica stencil da parte del noto artista di strada conosciuto come Evyrein sta facendo il giro dei media nazionali. La provocazione dell'autore, di origini scledensi, ha addirittura fatto scattare una perquisizione. L'abitazone padovana dell'uomo, che per scelta non si fa mai ritrarre in volto, è stata per l'appunto perquisita dagli uomini della Digos della città del Santo. Ma l'accusa  propugnata dalla Digos, nonché dalla procura che la coordina, reggerà il vaglio del procedimento? Oppure questo si arenerà di fronte alla insussistenza del reato?

Sotto il profilo squisitamente giuridico la materia (ne parla anche Vicenzatoday.it) è un pelino complessa. La Corte di cassazione più volte si è soffermata sul rapporto tra pubblici poteri e satira spiegando come, entro certi limiti, a quest'ultima non possano essere posti paletti quando la stessa satira è manifestamente iperbolica: ovvero quando la esagerazione dell'autore è palese e manifesta nonché parte integrante del gesto satirico o della forma d'arte. Ora chiaramente spetterà all'indagato far valere le sue ragioni.

Epperò sul caso sono già fioccate le prese di posizione a favore della libertà del pensiero in ambito artistico. Tra le riflessioni più critiche ed approfondite nei confronti della magistratura padovana c'è quella di Giovanni Vullo. Il quale su Faiinformazione.it, il portale riferibile al Fai, il fondo che si occupa di tutela dei beni storico artistici del Paese, non è andato giù di spada e fioretto: «il fatto inquietante a cui mi riferisco non sta certo nell'opera dissacrante» del writer «Everyn che raffigura la premier Giorgia Meloni» e l'ex latitante più ricercato d'Italia «Matteo Messina Denaro che si stringono la mano. Il fatto inquietante - scrive ancora Vullo nel suo corsivo datato 18 febbraio sta nel pensare che questo murale configuri il vilipendio ipotizzato dal magistrato, che avrebbe pure richiesto una gravosa perquisizione con sequestri e foto segnaletiche, salvo il perdurare, a tutt'oggi, dei post social sul murale nei profili dell'artista indagato... Ancor più sbalorditive sono le reazioni e i commenti che si possono leggere su alcuni giornali». Vullo non lo scrive ma la sua stilettata sembra indirizzata ad un servizio del quotidiano Libero che censura l'opera di Evyrein in modo così sgangherato e puerile da fare quasi tenerezza. La cosa curiosa è che stando a molti quotidiani, speci di centrodestra ma non solo, che fanno del garantismo il loro verbo quando l'indagato è un potente, in questa cirocostanza hanno già decretato, a processo nememno iniziato, che l'opera di Evyrein sia già di per sé diffamatoria.

Ad ogni modo appresso Vullo, in modo molto sagace peraltro, entra nel merito della vicenda e scrive: «Se poi volessimo esaminare l'opera di Evyrein, la lettura sarebbe pure semplice. Vedo un mafioso latitante che girava indisturbato al suo paese stringere la mano a un rappresentante dello Stato... la presidente Meloni... lo stesso Stato che gli ha fatto il ...favore...» ossia «la stretta di mano»... di «... non essere stato capace di individuarlo per tutto questo tempo nonostante fosse sotto il suo naso... Uno Stato di cui si è anche accertata la sua antica collusione con la mafia, come motivato nella sentenza del 6 agosto 2022 sul lungo processo penale inerente la trattativa Stato mafia...».

Sul piano più generale la riflessione di Vullo, che seppur in filigrana fa capire esattamente perché l'artista scledense vada prosciolto, approda ad un lido ancor più interessante che l'azione di Evyrein ha rimesso al centro della discussione: ossia la richiesta di abrogazione di ogni tipo di reato di vilipendio, che giunge da quei settori della società italiana che in questo senso meglio hanno compreso la portata della nozione di libertà di espressione del pensiero in ogni sua forma. Vullo, cita in modo decisamente pertinente, le ragioni addotte in sede di vaglio parlamentare in relazione ad un disegno di legge pensato, era la fine degli anni '90, durante la XIII legislatura.

In quella sede si argomentò sostenendo come le norme sul vilipendio «non appaiono compatibili nella sostanza con i princìpi fondamentali dello Stato democratico... il legislatore democratico non puó rispondere con un'assoluta e aprioristica difesa del prestigio delle istituzioni, perché essa finirebbe fatalmente col tradursi in uno strumento destinato a privilegiare chi detiene il potere. Occorre invece... che una tutela privilegiata venga accordata a chi dissente, e cioé a tutte le minoranze, in modo che possano condurre le loro battaglie e sostenere le loro rivendicazioni con tutte le forme possibili di espressione e quindi non solo con critiche raffinate o complesse, ma anche con invettive e espressioni suscettibili di essere ritenute vilipendiose. In una società libera, che ammette e predica il dissenso e l'alternanza al potere delle forze politiche, le istituzioni non possono e non debbono essere tutelate con un manto di sacralità, perché essa altro non sarebbe, come efficacemente si è detto, che un comodo paravento dietro cui mascherare la richiesta di acquiescenza e di ossequio a chi detiene il potere». Quella proposta di legge si arenò per i motivi più disparati in primis perché la cultura giuridica del nostro Paese, in un'ottica senza dubbio vergognosamente classista, tende a dare più peso alla onorabilità delle istituzioni e delle persone (in primis se potenti) rispetto alla libertà di espressione del pensiero.

Le parole di Vullo sono parole sante, che mutatis mutandis, possano trovare applicazione in un altro ambito: quello della diffamazione. Che dovrebbe essere abrogata dal codice penale come dovrebbe essere abrogata dal codice civile ogni norma che rende possibile la citazione per danni in relazione alla diffamazione. Proprio perché la libera espressione del proprio pensiero, per pesanti che possano apparire le estreme conseguenze di un assunto del genere, non possono mai essere compresse. La nozione liberale per cui la propria libertà finisce dove comincia quella degli altri, discutibile già di per sé, anche a prenderla per accettabile, non può essere certo applicata al pensiero: con buona pace dei corifei che si battono contro il fenomeno, spesso odioso, dell'hate speech. Il quale però non può essere contrastato né con la repressione penale né con la censura, bensì col ragionamento, con gli argomenti, con la cultura e con il cuore.

Per ultimo ma non da ultimo rimane poi una valutazione sull'operato delle forze dell'ordine e della magistratura. Che in relazione al caso Evyrein, a fronte di una ipotesi di reato senza dubbio bagatellare, si sono mosse con la velocità della luce. E qui cominciano le dolenti note. Perché spesso e volentieri quando la parte offesa è il signor nessuno o quando la parte offesa è un soggetto percepito come scomodo per il potere, i paradigmi della legge si allargano come i lembi delle mutande vecchie.

Chi scrive può testimoniare sulla sua pelle un caso concreto. Nel 2017 un alto papavero del genio civile di Padova pensò bene di impedirmi dal prendere parte ad una delicatissima seduta organizzata dallo stesso ente, per legge aperta al pubblico, in cui si sarebbe data lettura delle offerte in relazione ad un bando di gara per l'assegnazione di alcuni spazi spondali del Piovego. In astratto quella condotta avrebbe potuto eventualmente anche costituire un inopinato schermo per una situazione poco commendevole o per una condotta dolosa, magari per un episodio di grave malversazione, di vessazione o di corruzione: quando si parla di pubblica amministrazione le cronache nazionali, pure quelle giudiziarie, sono pregne di ogni fattispecie: e i dubbi assillano spesso le nostre menti.

Segnalai quindi quello che percepii come un abuso di potere bello e buono all'Ordine dei giornalisti (il caso è incommensurabilmente molto più grave di quello del murale che raffigura il mafoso e la premier) e sporsi regolare denunzia-querela alla procura di Padova. Il risultato? Da cinque anni non se ne sa più nulla: un manto di afasia giudiziaria si è steso su quella vicenda. E su decine di migliaia di altre denunce in cui la parte offesa non appartiene ad una qualche casta. Ad Evyrein invece nel volgere d'un baleno hanno sequestrato effetti personali e perquisito la dimora. In casi come questi, è bene che i magistrati ricordino che a pagar loro lo stipendio sono i cittadini, non il Csm. Si potrebbe disquisire ore in materia di concezione etica dello Stato, del punto di vista di Hegel o di Hobbes. Ma alla fine più in alto di tutti è arrivato Alberto Sordi quando interpretando il Marchese del Grillo sentenziò: «Io so' io. e voi nun site un cazzo». In un Paese in cui si depenalizza o si vorrebbe depenalizzare l'abuso d'ufficio, il falso in bilancio, qualche reato ambientale il fossile del vilipendio (che sia verso un capo di Stato, verso le istituzioni, le forze armate, la patria bandiera, la religione o qualsi altra cosa) rimane lì dov'è. A più di qualcuno quel cane da guardia spelacchiato detto vilipendio fa comunque comodo: soprattutto a fronte di una opinione pubblica sempre meno inclne alla critica radicale della società e della cultura in cui siamo, più o meno ob torto collo, immersi. In questo contesto poi il diritto di satira (che non a caso la si può irridire nei modi più beceri) non dovrebbe essere mai, in nessun modo, essere compresso.  

In Evidenza

Potrebbe interessarti

Caso Evyrein, perché l'indagato va prosciolto e il reato di vilipendio va abolito

PadovaOggi è in caricamento