rotate-mobile
Attualità

Il coraggio di Sveva: in Sudan per lavorare, si ritrova in mezzo alla guerra ma riesce a tornare a casa

Non sono stati giorni facili per la giovanissima Sveva Linarello, restauratrice di Villafranca Padovana con un incarico dell'Università di Cambridge a Khartoum. Dopo giorni rinchiusa, a causa dell'esplodere del conflitto, trova una via di fuga e riesce a raggiungere la salvezza

Una storia che si è conclusa bene, nonostante lo scenario dove si è svolto sia quello di una guerra civile. Sveva Linarello ha ventitré anni ed è di Villafranca Padovana. Giovanissima, pur ritrovandosi in mezzo a un conflitto ha saputo, con ingegno e sangue freddo, tornare a casa. Solo chi ha vissuto certe esperienze sa quanto sia importante essere molto presenti, attenti, concentrati, senza perdere mai di vista l’obiettivo: salvarsi. E lei ce l’ha fatta, nonostante le grandissime difficoltà che ha dovuto superare.

Piramidi

Sveva è laureata a Venezia, in scienze naturali per la conservazione e il restauro. «Era il primo incarico avuto in questo ambito, ho finito da poco la laurea magistrale. Un lavoro legato a materiali lapidei in un’antichissima tomba, ricca di affreschi egiziani. Ci sono più piramidi in Sudan che in Egitto, quella dove lavoravo io è una tomba appartenente alla diciottesima dinastia dei faraoni». Quando negli anni ’50 è stato messo in atto il progetto della diga di Assuan queste tombe sono state rimosse e spostate. In questo caso a Khartoum. «Per questo mi trovavo lì». Il museo della capitale del Sudan coinvolge esperti da tutto il mondo per i restauri, in collaborazione con l’università di Cambridge che è quella che le ha affidato il lavoro. Una opportunità che, come collaboratrice esterna, non si è voluta far scappare. «Sono arrivata l’11 notte, abbiamo immediatamente cominciato a lavorare. Era tutto tranquillo, siamo anche usciti a cena con un paio di colleghi, quelle sere. Ma il sabato mattina, era il 15 aprile, ci siamo svegliati alle 9 a causa di alcuni spari. All’inizio si pensava ci fosse una manifestazione, così gli addetti dell’hotel ci hanno spiegato come ci si comporta in questi casi».

Guerra e ambasciate

Stare lontani da finestre, non accedere a balconi e terrazze, indicazioni semplici ma vitali, da seguire. «Alle 4 del pomeriggio hanno però staccato la luce di tutta la zona. Sono abituati in Sudan al fatto che si possa restare senza energia elettrica  e infatti hanno tutti dei generatori. Però essendo fuori dall’edificio non poteva essere acceso. Lì abbiamo capito che eravamo circondati dai paramilitari». Una settimana senza luce e senza acqua, sono rimasti. «Eravamo io e un ragazzo brasiliano che lavora a Cambridge, due persone tedesche e un ragazzo ugandese. Eravamo gli unici ospiti dell’albergo, e non ci hanno mai dato la possibilità di uscire. Nessuna nostra richiesta veniva accolta». Chiusi all’Acropol, così si chiama l’hotel. «Un giorno – racconta Sveva tutto di un fiato - hanno sfondato la porta dell’albergo per prendersi quello che volevano, ma per fortuna non salivano mai nelle stanze. Il proprietario dell’hotel è sempre riuscito a far in modo che non salissero mai». In queste condizioni avere informazioni, e darle, non è affatto semplice. «C’erano pochissime possibilità di comunicare. Avevamo una power bank che ha permesso di poter utilizzare un telefono, che poi era il mio. Non so come possa essere durata per otto giorni, quella carica. Con i miei genitori comunicavo via messaggio. L’unica ambasciata che rispondeva era la nostra, quella italiana. Figurati che ci lavora una signora di Padova, una strana coincidenza. Era lei a rispondere ogni qualvolta c’era un’emergenza». Mentre racconta Sveva non si distrae, anzi è molto precisa anche nei dettagli. «Le giornate passavano con l’ansia, avevamo paura potessero entrare. La padrona dell’albergo è di origine italiana. Mi rassicurava raccontandomi quello che ha vissuto in tanti anni in Sudan. La caduta del regime, la guerra civile. E nonostante questo non ha mai pensato di andare via. Era il suo modo per farmi capire che non dovevo preoccuparmi».

Bambini soldato

Il tempo scorre lento in situazioni così. «Un giorno sono entrati per chiederci cibo e acqua, ma non ne avevamo neppure per noi, a parte delle piccole bottiglie che erano in hotel. Gliele abbiamo date e nel pomeriggio sono tornati con dei biscotti per noi. Volevano mangiassimo qualcosa». Sveva racconta che quando entravano, le poche volte che lo hanno fatto, lei ha sempre evitato di farsi vedere. Come lei facevano anche gli altri ospiti dell’hotel. «Erano tutti giovanissimi, uno di questi, armato con il mitra, avrà avuto al massimo tredici anni. Non ho colto grandi ideali dietro alla scelta delle armi, le poche volte che mi è stato riferito cosa avessero detto o quando li ho sentiti io. Anzi, davano l’idea che sarebbero tornati a casa loro molto volentieri». Anche loro, Sveva e gli altri ospiti, consci che fuori c’era una vera e proprio guerra, avrebbero volentieri lasciato l’Acropol. «Dopo otto giorni sono entrati e ci hanno detto che dovevamo andare via. L’indomani alle 5 avrebbero dovuto condurci alla moschea. Intanto quelli di Emergency stavano cercando di raggiungerci ma non ci sono riusciti, troppi gli scontri in atto. Non era sicuro muoversi fino a dove ci trovavamo noi, alla moschea. Così abbiamo cercato un rifugio camminando e chiedendo un posto dove ripararci. Lo abbiamo trovato, dopo ore».

Generosità

«Chi ci ha aperto, una bettola era, senza niente, sono state persone di una generosità, di una bontà, che mai io ho incontrato. Si sono presi cura di noi, non volevano neppure li pagassimo», racconta trattenendo l’emozione Sveva.  «Hanno preso i nostri telefoni e li hanno portati da un amico che aveva un generatore e quindi la corrente. Alle 18, che è buio pesto, ci hanno preparato da mangiare e rassicurato. Era tutto buonissimo. Ci hanno sistemati alla ben e meglio e ci hanno fatto dormire». Cambia il tono della voce di Sveva, quando racconta di queste persone. Che descrive come semplici ma anche come persone molto coraggiose e generose. Non erano obbligate a offrire loro un rifugio, eppure. «E sono stati loro, i due titolari di questo sgangherato albergo, che ci hanno trovato un driver, hanno contrattato la spesa con lui e convinto l’uomo a condurci nel punto che ci era stato indicato dall’ambasciata». Che era poi l’aeroporto di Khartoum. Sveva sottolinea più volte il fatto che proprio queste persone, al contrario ad esempio dell’ambasciata tedesca o quella brasiliana, hanno fatto di tutto per aiutarli. Rischiando anche tanto, esponendosi. Fino a quando non li hanno fatti salire sulla jeep che avevano proprio loro trovato, non li hanno lasciati mai soli. «Non so quanti check point abbiamo dovuto passare», dice mostrando un sorriso che verosimilmente avrà avuto anche quel giorno, mentre vedeva concludersi la sua odissea. «Siamo stati l’ultimo volo partito da Khartoum. C’erano un sacco di carabinieri ad aspettarci, insieme al personale dell’ambasciata. Erano pronti a intervenire se non ci avessero lasciati passare. Ci hanno caricati tutti su questo aereo militare e ci hanno fatti partire».

Paura postuma

Come stai, ora che sono passati diversi giorni? Un’esperienza così segna. «Sto bene, quello che dovevo piangere l’ho pianto in volo. La paura che ho avuto, dopo, è stata troppo grande». Cosa ti ha dato coraggio e speranza che tutto si sarebbe concluso al meglio. «Mi hanno aiutato quei dieci minuti al giorno in cui potevo usare il telefono. I messaggi dei miei famigliari, degli amici. Poi ho letto tantissimo in quei giorni, era pieno di libri l’hotel. Era il mio modo per fuggire da quella strana prigione in cui eravamo costretti». Ti hanno salvata i libri e gli stessi sudanesi, si può dire così? «Forse sì, si può dire così. I sudanesi che ho conosciuto io, a parte i miliziani intendo, non erano interessati alla guerra. Non lo erano perché non si sentivano di farne parte, ma di esserci in mezzo. Quindi c’era solo preoccupazione mista a un po’ di fatalismo. Ma la paura che ho avuto io, dopo però, non la potrò mai dimenticare».

Guerra Sudan

In Evidenza

Potrebbe interessarti

Il coraggio di Sveva: in Sudan per lavorare, si ritrova in mezzo alla guerra ma riesce a tornare a casa

PadovaOggi è in caricamento